La visione di "Rubicon" produce gli stessi effetti di dissonanza cognitiva che sperimento quando m'imbatto in articolo di Aldo Grasso sul Corriere. Grasso descrive una realtà televisiva rimasta concettualmente ed esteticamente ferma agli anni Settanta, primi anni Ottanta. Una realtà virtuale, un mondo parallelo in cui le rivoluzioni tecnologiche dell'ultima decade - dai personal video recorder ai telefoni cellulari, da Google TV a YouTube, da Hulu a Netflix - non hanno mai avuto luogo. In questo bizarro world - un'aberrazione anacronistica - i talk show, Bruno Vespa, Pippo Baudo, i telegiornali e il festival di Sanremo, il "Grande Fratello" ed "X-Factor" vengono discussi come se fossero eventi televisivi "importanti". In altre parole, la genialità di Grasso consiste nel pretendere che esista davvero un pubblico per questa sottospecie di programmi. Il mondo televisivo come volontà e rappresentazione.
Creata da Jason Horwitch e prodotta da Henry Bromell per il network AMC (lo stesso di "Mad Men", per intenderci), "Rubicon" sfrutta un simile artificio retorico - l'istituzione di una realtà parallela, verosimile, ma del tutto virtuale perché anacronistica - per reinventare un genere che ha trovato in "24" il suo paradigma. Sulla carta, "Rubicon" parrebbe un mero clone della saga interpretata/prodotta da Kiefer Sutherland: una fittizia agenzia anti-terroristica (API, acronimo di American Policy Institute) si adopera per sventare attentati catastrofici sfruttando il talento investigativo di un gruppo di brillanti analisti guidati dal sobrio Will Travers (James Badge Dale), un nome, una profezia, traducibile come "attraverserà" ("W/will traverse/cross the Rubicon", get it?). Will è calmo e pacato, afflitto da un senso di quieta disperazione causato dalla perdita della moglie e della figlia negli attentati dell'undici settembre.
Le similitudini, tuttavia, finiscono qui. Per cominciare, ci troviamo a New York e non a Los Angeles. Notte e giorno, specie sul piano architettonico ed urbano. Ad L.A. nessuno cammina. A New York, nessuno guida. Questo crea dinamiche narrative radicalmente differenti.
In secondo luogo, se la CTU è il nirvana dell'hi-tech, l'API colpisce per la quasi totale assenza di tecnologia. La presenza di computer è sporadica: laptop/desktop/tablet sono raramente utilizzati dai vari personaggi. Sono alla periferia, non al centro dell'azione. Le uniche workstation - per altro inaccessibili agli agenti/analisti dell'API e confinate nel piano interrato - sono usate da un tecnico-vate (come negli anni Cinquanta & Sessanta), protetto da una grata (!).
In compenso, gli uffici sono stracolmi di carta, cartine e libri (!). Gli investigatori leggono ancora i quotidiani di cellulosa (!). Al posto di Google Earth, mappamondi (!).
Le fotografie non sono digitali, ma stampate su pellicola (!).
Non ci sono proiettori, ma lavagne (!)
I telefoni cellulari sono usati frequentemente, ma solo per conversare: niente SMS o apps (!). Non solo: le comunicazioni più importanti si svolgono attraverso apparecchi a filo (!) e cabine pubbliche (!).
Il sistema operativo della polverosa biblioteca dell'API é l'MS-DOS (!) e l'ultimo aggiornamento risale al 1987 (!). Gli agenti ricevono ogni giorno corposi plichi di carta - report dell'intelligence (CIA, FBI, NSA...) - che studiano religiosamente.
Carta, carta, carta.
=> anni Settanta, quasi Ottanta.
Le divergenze con "24" non finiscono qui. Il ritmo della saga di Bauer è frenetico e travolgente. I personaggi non si fermano mai. Non dormono. Non mangiano. Il montaggio è frenetico, da cardiopalma. Lo split-screen, multiplo, frammenta l'attenzione. Il senso di urgenza toglie il fiato.
Per converso, l'incedere di "Rubicon" è lento, pachidermico. La suspense, come il diavolo, sta nei dettagli, negli accostamenti improbabili, nelle battute a prima vista banali, nei falsi sorrisi. La macchina da presa indugia su personaggi immobili, immersi nell'oscurità o in penombra, in totale silenzio.
Spazi vuoti, angolazioni paranoiche, visuali panottiche.
Finestre aperte sul cortile, sulla baia, sulle strade.
Finestre.
Uffici immersi nell'oscurita'. Apparecchi antiquati. Libri.
Se gli agenti della CTU scannerizzano le mille finestre che si spalancano in un'orgia di pop-up sui loro monitor, quelli dell'API osservano la baia di New York, il traffico, i grattacieli, in cerca di risposte, di... illuminazioni.
Tanto "24" quanto "Rubicon" presentano una logica narrativa tipicamente ludica, ma se il primo è un videogioco, "Rubicon" é una partita a scacchi.
Anzi, un rompicapo, un enigma da risolvere con carta e penna - non a caso, le parole incrociate svolgono un ruolo fondamentale a livello narrativo, come si evince anche dalla sigla di apertura (vedi sotto). In "24", i dialoghi sono accessori e ridondanti: la loro funzione e' insieme fàtica e retorica, ("Dov'è Kim?!?", "Dannazione"), mentre in "Rubicon" sono gravidi di pathos.
Esempio, tratto dal quarto episodio, "The Outsider". Truxton Spangler discute l'essenza dell'attivita' di spionaggio con Will Travers:
Spangler: "Most people misunderstand, I find. [long pause] They can't see it for what it is. [long pause] It's a gift. You know." ("Sono giunto alla conclusione che la maggior parte della gente non capisce. [lunga pausa] Non colgono il senso della cosa. [lunga pausa] E' un dono, capisci?")
Travers: "What is?" (Cosa?)
Spangler: "The solitude, you know.[long pause] The separation. [long pause] A gift [long pause]. That's what they don't see" (La solitudine, capisci? [lunga pausa] La separazione [lunga pausa] E' quello che non riescono a capire").
Non a caso, tutti i personaggi di "Rubicon" solo soli. Disconnessi. Incapaci di stabilire una connessione umana significativa. Il lavoro che hanno scelto e' insieme la causa e l'effetto della loro condizione.
La separazione.
Persino il titolo - che viene "spiegato" nella penultima puntata della prima serie - si richiama esplicitamente al passato classico invece che al presente postmoderno. Pur essendo ambientato ai giorni nostri, "Rubicon" é girato nello stile di film cospirativi degli anni settanta: Parallax View di Pakula, La conversazione di Coppola, I tre giorni del condor di Pollack.
Anche qui, ogni personaggio è tragicamente solo nell'immenso vuoto che c'è. Nessuno si fida di nessuno. Niente è come sembra. Tutti sono sotto stretta osservazione. L'ossessione dell'occhio-che-tutto-vede pervade ogni inquadratura.
Le epifanie sono il frutto di uno lungo e attento studio - e c'è sempre l'arguzia e la perseveranza umana dietro alla soluzione del puzzle, mai il computer. Le fasi di azioni sono sporadiche e per questo memorabili.
La vera star dello show è il sublime Truxton Spangler (Michael Cristofer, seneggiatore, regista, attore... un personaggio epico, sullo schermo e fuori), misterioso direttore dell'API, in apparenza affabile e cordiale, flemmatico e composto, ma in realtà letale e tagliente, burattinaio dalle mille risorse. Un uomo criptico, solitario, tecnocrate e burosauro, affossato nella poltrona di pelle, cartina dell'Europa alle spalle, tazzone di cereali, sigaretta nervosa, parlato biascicato.
"Rubicon" è una serie originale, peculiare, diversa. Proprio per questo motivo, temo per il suo futuro, specie in un'arena televisiva, quella statunitense, che - salvo rare eccezioni - promove l'omogeneità e le catene di fast-food (quanti inutili spin-off di "CSI" sono stati prodotti negli ultimi anni? Puro colesterolo cerebrale) invece del gourmet raffinato.
Ben vengano i mondi paralleli e gli anacronismi televisivi.
Da vedere/ri-vedere, in slo-mo, con la tecnica del freeze-frame (cfr. "Lost").
A questo proposito, ecco alcune schermate dei (geniali) titoli di apertura. Una di queste presenta degli errori di sintassi (deliberati?). Si tratta forse di indizi per risolvere il caso. O i 'casi'?
matteo bittanti, 22 ottobre 2010
link: Rubicon, sito ufficiale
link: paranoia, paranoia
Una versione "accorciata" di questo saggio - sans images - e' stata pubblicata sul numero di novembre 2010 della rivista Duellanti. Cliccate sulle immagine sottostanti per leggerla.