Mi sono sparato la prima serie di In Treatment a diecimila metri di altezza, su un Boing 747 Lufthansa SFO=>MPX, previo inevitabile scalo teutonico in quel di Francoforte. Un po' sul mio laptop a forma di mela, il resto sul mio iPhone (allora l'iPad non esisteva ancora, se non nella fantasia del geek metrosexual Jonathan Ive). Non era un viaggio di piacere. Mi recavo nella capitale della moda, della coca e delle tangenti per firmare i documenti di separazione in un generico ufficio del Tribunale di Milano, al settimo piano, come in quel racconto di Buzzati, con l'aggravante che quando si materializza non la riconosci. Ha un aspetto vagamente familiare ma nello stesso tempo non sai chi sia. Sono passati solo sei mesi, ma l'hai completamente rimossa dall'hard drive, tipo Eternal Sunshine of the Spotless Mind. E quindi ti viene da ridere perché la situazione presenta elementi surreali. Stai de facto divorziando una persona che non hai mai conosciuto. Mi domando, en passant, se Oliver Sacks troverebbe il mio caso interessante al punto da scriverci sopra un capitolo del suo prossimo libro.
Basterebbe qualche paragrafo per rendermi felice.
In pista, faccio buon viso a cattivo gioco e firmo dove devo firmare sorrido quando devo sorridere, stringo mani quando devo stringerle. Sento voci, in sottofondo, ma la mia mente è altrove mi sorprendo a pensare a dove andranno le papere dello stagno del Golden Gate Park quest'inverno. Ignoro l'ennesima recita del coccodrillo, sorrido in modo random mentre attendo un ascensore che non arriva, poi opto per le scale mentre le papere sguazzano allegramente, ignare del gelo incombente. Sette piani di morbidezza che infiniti servizi del telegiornali hanno reso familiari, al punto che so istintivamente come orientarmi. Mappatura cogntiva direbbe Jameson. Poi, finalmente, la luce. Fuori. Libero. Quasi. La stessa pratica che prevede tre mesi in California, in Italia richiede tre anni. Come ha scritto William Gibson, il futuro è già arrivato, ma non è equamente distribuito. Infatti, nel Belpaese, il futuro è sempre in ritardo come l'Intercity da Bergamo e la mancata separazione tra stato e chiesa ha compromesso sani e legittimi processi di modernizzazione secolare. Amen. Sopravviverò anche in stato di cattivita'.
Prodotta da "it's not tv, it's HBO", "In Treatment" descrive la storia di uno psicanalista di New York e dei suoi pazienti. Quattro sessioni alla settimana. Nella prima serie, il nostro scopre che la moglie lo tradisce con un altro – i due volano a Roma per consumare il loro affair – mentre lui, stoicamente (stupidamente?) resiste le avances di una sua paziente. E' uno di quei casi in cui la fantasia riproduce con perturbante fedeltà la realtà, fermo restando che la realtà è sempre più improbabile/imprevedibile della fantasia. Come ci ricorda Zizek, 1) la realtà emula la fantasia con l'unico obiettivo di superarla continuamente; 2) la fantasia rende possibile il reale e "cosi via/cosi via". Alla vicina di banco sul Boing che mi domanda se ci sia qualcosa di masochistico nel guardare una serie come "In Treatment" in fase di divorzio rispondo che sì, in fondo è un forma di torture porn psicologico paragonabile alle cose migliori di Lars Von Trier, mezz'ora di nichilismo emotivo che non ha eguali nell'attuale produzione televisiva statunitense. Citando il Deboscio, mi sorprendo ad affermare che "il matrimonio è un contratto, il divorzio un sentimento".
"In Treatment" non offre grandi possibilità di redenzione o salvezza. I ragazzini muoiono di cancro. I figli delle coppie divorziate sviluppano ansie e manie di persecuzione (nota mentale: fortunatamente, non ho figliato). I piloti dell'Air Force si suicidano in volo perché attanagliati da insopportabili sensi di colpa. Detto altrimenti, "In Treatment" descrive le relazioni umane così come sono, senza spalmarci sopra burro di noccioline e marmellata. E' uno dei pochi show che non riesco a consumare in formato maratona, un dvd dopo l'altro, in streaming, netflix-style. Perche' "In Treatment" presuppone, anzi, impone, una fruizione episodica. La gravitas e' troppo intensa. Le sessioni vanno ruminate a lungo. Le parole di Watson risuonano nella mia mente per giorni.
"E come ti sei sentito, dopo?"
Allo stesso tempo, come ogni serie televisiva, ha una funzione essenzialmente pedagogica prima ancora che ricreativa. Presenta un modus operandi, insegna, letteralmente, come comportarsi, cosa aspettarsi, cosa dire, come agire in situazioni analoghe (divorzi, tradimenti, suicidi). Al pari di altri milioni di americani, uso "In Treatment" come una sessione di psicoterapia a buon mercato ($1.99 per episodio su iTunes, vuoi mettere? Un vero affare). A lezione mostro sequenze della versione originale, trasmessa in Israele ("Be' Tipul" di Hagai Levi) e dell'adattamento statunitense per spiegare le differenze culturali tra i due contesti sociali. Anche se storie e sceneggiature sono analoghe, a tratti identiche, la mise-en-scene è assai differente (la distanza tra dottore-paziente, la posizione dei rispettivi corpi, i giochi di sguardi, l'arredamento dello studio etc.).
Gli studenti apprezzano e io posso parlare di una delle mie innumerevoli ossessioni senza dovermi giustificare piu' di tanto. L'etichetta cross-cultural studies è come la smartbomb degli sparatutto: spazza via ogni possibile obiezione. E poi, "il passaggio dalla gioventù all’età adulta consiste nell’abbandono della progettazione dell’ideale per la gestione del possibile", come insegnano i debosciati. Ergo, "In Treatment" dovrebbe diventare materia di studio obbligatoria per tutti gli adolescenti. Per rimediare a tutti i danni prodotti dalle commedie romantiche di Hollywood, alle canzonette pop, a cose immonde tipo "Friends".
L'anno scorso ho incontrato David Byrne a un party organizzato dalla San Francisco Film Society. Sessant'anni portati benissimo. Byrne è di origini irlandesi, il che significa che tutto quello che dice suona intelligente di default. Bryne pronuncia privacy "privasi" invece di "prai-va-si" (americano), "issus" invece di "is-cius" (americano), "vitamin" invece di "vai-ta-min" (americano). Nel mio immaginario, il Byrne-Watson ha ormai sostituito e rimpiazzato i suoi alter-ego di Miller's Crossing e dei Soliti Sospetti. Complice la terza vodka on the rocks, suggerisco al Dottor Wilson un episodio ispirato alla mia vicenda personale. Byrne mi scruta con l'aria intensa di chi sta cercando di capire se la persona che gli sta davanti è uno psicopatico oppure un tipo particolarmente intenso (la differenza è minima). Mi promette di pensarci sopra e mi lascia il suo biglietto da visita. "Ne parlo con gli sceneggiatori," mi dice sorridendo e anche se sai che non è vero, ti senti subito meglio, sai di non aver vissuto invano.
Giunta alla terza stagione, "In Treatment" è una delle cose più interessanti, televisivamente parlando, di un mediascape dominato da analisi forensiche, morti che camminano e liceali canterini. Nei due episodi/sessioni da venti e passa minuti, si ravana nei bassifondi dell'essere umano: rancore e livore, paranoia e ansia, psicopatologie della vita quotidiana. Ogni episodio è intriso di una violenza inaudita, violenza psicologica, bergmaniana, assai più dolorosa e letale di quella fisica. Nella terza stagione, Watson - perfettamente consapevole della propria mortalità e della possibilità della fine - sta affogando nel gorgo della depressione. Siamo lontani anni luce da "Tell Me That You Love Me", altra sublime produzione di HBO che celebrava il potere salvifico della psicoterapia. Qui l'ironia alleniana degenera in vitriolico pessimismo. Il sardonico si fa caustico, la sofferenza tocca il limite ma non ci sono angeli in circolazione. Show teatrale, ripetitivo nella forma e nei contenuti, "In Treatment" costruisce un'intollerabile suspense attraverso la voce, la prossemica, il linguaggio del corpo.
E' difficile restare calmi e indifferenti di fronte alle conversazioni che si svolgono nello studio di Watson o di quello della sua terapeuta (anche gli psicologi vanno dallo psicologo, anzi, dalla psicologa) perché dietro a ogni scambio si cela una domanda esistenziale di portata travolgente: Cosa vuol dire amare? Cosa vuol dire provare empatia per un altro essere umano? E' possibile raggiungere una vera intimità? Cosa significa "compassione"? E' possibile "credere" in un'altra persona, aprirsi completamente? Oppure bisogna sempre guardarsi le spalle per prevenire l'inevitabile pugnalata? Lo show - una notevole performance retorica, spesso erotica - viola apertamente il sacro contratto tra psicoanalista e paziente per rendere manifesto quello che si svolge dietro a una torta chiusa.
Volevo dire "porta".
Lapsus freudiano.
Matteo Bittanti
link: in treatment
Questo articolo e' stato pubblicato sul numero di gennaio/febbraio 2011 di Duellanti.
Immagini: HBO.