Cosa faremo da grandI? Te lo spiegano gli uomini di una certa età
Matteo Bittanti
"When I grow up to be a man
Will I dig the same things that turn me on as a kid?
Will I look back and say that I wish I hadn't done what I did?
Will I joke around and still dig those sounds
When I grow up to be a man?"
(The Beach Boys, "When I grow up (to be a man)", 1965)
Televisivamente parlando, è difficile fare meglio di "Men of a Certain Age" (TNT). La serie di Ray Romano e Mike Royce, Rory Rosegarten e Cary Hoffman, giunta alla seconda stagione, ti spiega in modo molto onesto che nella vita, per avere successo, successo vero, bisogna essere stronzi. Bastardi dentro. A tutti gli altri, agli ingenui che poi si ritrovano a cene con tipi furbi ed arroganti, consigliamo un intenso allenamento in palestra.
Lungi dall'essere beffardo, pedante o sarcastico, "Men of a Certain Age" ti comunica la notizia in modo soft, con un sorriso agrodolce e una pacca sulle spalle. I tre protagonisti sono buoni, hai presente? Buoni. Mensch. Hanno una coscienza. La coscienza, com'è noto, ti rallenta. I vincenti non hanno un codice morale. La morale è inutile zavorra. Joe Tranelli (Ray Romano) è stato lasciato dalla moglie dopo vent'anni di matrimonio e sta cercando di costruirsi una nuova carriera sentimentale pescando, senza troppa fortuna, nel laghetto delle mamme single/divorced della Los Angeles medio-borghese.
Terry Elliott (Scott Bakula) è un attore di soap operas e pubblicita' televisive ormai in declino che si è reinventato come venditore di auto Chevrolet per pagare l'affitto. Ricordi Glengarry Glen Ross (David Mamet, 1982; James Foley, 1992)? Competizione spietata, darwinismo sociale, chi vende sopravvive chi non vende affoga? Ecco. Owen Thoureau (Andre Braugher) è il nuovo direttore del suddetto rivenditore, gestito per oltre un trentennio dal padre (Richard Gant), invadente ed impudente, ex giocatore dei Lakers, torre che terrorizza e traumatizza la prole. Owen è stressato, soffre di disturbi alimentari, ha il diabete e dorme con un respiratore. Sua moglie, in genere, lo supporta. Diciamo che lo sopporta.
Meditazione catodica sulla mezza età, "Men of a Certain Age" è andrebbe consumato prima di raggiungerla, per sapere quello che ci aspetta. Come sottolinea Il Deboscio "Il passaggio dalla gioventù all’età adulta consiste nell’abbandono della progettazione dell’ideale per la gestione del possibile." Quando ero un teenager mi sono sparato "Thirtysomething" per prepararmi ai trent'anni. Ora che sono trentaqualcosa e che ho sperimentato direttamente svariati eventi televisivi guardo "Men of a Certain Age" per prepararmi ai cinquanta. Come Bush Jr. e Rumsfeld, anche io credo fermamente alla necessità dell'attacco preventivo. O, per dirla con il Ben Kingsley di Sexy Beast: preparation preparation preparation.
Cinquant'anni vuol dire MILF e Teen. American Pie e American Beauty. Soccer moms. Diners. TV dinners. Rate da pagare. "Men of a Certain Age" ti insegna che, per un americano, non c'è nulla di peggio della middle class. O sei un ricco laido oppure povero in canna. Middle class significa che non esisti proprio. Vuol dire mediocrità totale. E' meglio morire a quarantanni di overdose che raggiungere i cinquanta e vivere, che so, a Santa Clara, California e scoparsi le casalinghe disperate mentre il marito è al lavoro. La sigla - "When I Grow Up (to be a Man") dei Beach Boys è praticamente un manifesto, pura poesia. L'idea è che da piccoli le cose erano sostanzialmente semplici, ma sono diventate complicate crescendo. Le donne, per esempio, restano un mistero. L'importante, ti dice "Man of a Certain Age", è mantenere quantomeno una parvenza di autonomia.
"Men of a Certain Age" ti spiega che nella vita contano solo gli amici. Amici maschi. La serie tratta - in modo leggero e insieme profondo - dipendenza, ansia e paranoia, crisi esistenziali e fallimenti creativi. E' una serie dolcemente abrasiva, che porta in primo piano la devastante violenza delle relazioni umane, senza raggiungere il vitriolo di un Mike Leigh - da Naked ad Another Year. "Men of a Certain Age" non è idiota come "Sex & the City", uno show che ha provocato danni immani, quasi catastrofici, sulla psiche femminile & maschile, presentando modelli di relazioni sociali improbabili ed elevandoli a benchmark, paradigma, modello raggiungibile.
"Men of a Certain Age" racconta il sesso nella fase della tua vita in cui il corpo si sfalda e la chioma si è ormai sfoltita, paradossale per dei bambini che si ritrovano nonsisacome intrappolati nel corpo di un cinquantenne. ("Invecchiare è strano... Ma che cazzo!" si lamenta Roger Greenberg nel capolavoro di Noah Baumbach, Greenberg). Pur essendo ambientato nella San Fernando Valley, capitale mondiale del porno, la quotidianita' del trio non include modelle siliconate e anoressiche o ninformani oliate tipo Lisa Ann o Arianna Labarbara. "Men of a Certain Age" si colloca agli antipodi di "Californication", pur essendo ambientato nel medesimo "universo", L.A..
Se la serie di Duchovny celebra l'ultraquarantenne maschio forte, virile e creativo che passa i pomeriggi tra una threesome, una canna, e le poppe della Sasha Grey di turno, "Men of a Certain Age" illustra gli insuccessi, le difficoltà e le umiliazioni della trifecta, a casa e sul lavoro, nella vita di tutti i giorni. Avere cinquant'anni, a Los Angeles, non è facile, capisci. In una società che celebra le apparenze e l'eterna giovinezza, botox e viagra, bmw e rolex, i tre moschettieri arrancano e faticano a (ri)trovare la propria identità. Il diabete di Owen, l'astigmatismo di Joe, e i problemi economici di Terry non aiutano. Sisifo.
A cinquant'anni, l'incertezza è l'unica certezza e anche per fallire, bisogna impegnarsi. A cinquant'anni, i rapporti con l'altro sesso sono puramente strategici e logistici, strumentali e disfunzionali. "Men of a Certain Age" ti dice anche che gli errori di gioventù - la dipendenza dal gioco d'azzardo, per esempio - ti sputtanano fino alla vecchiaia.
Non esiste redenzione.
Solo una quieta disperazione che un sorriso impacciato non riesce proprio a nascondere.
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Questo articolo è apparso sul numero di marzo 2011 di Duellanti