Il saggio che segue è stato pubblicato, in quattro capitoli, su WIRED.it nell'agosto 2011.
Pubblicato in Italia da ISBN Edizioni, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato di Simon Reynolds e' disponibile in libreria a partire dal 15 settembre 2011. A tutti gli interessati consiglio la lettura del blog ufficiale.
PARTE PRIMA
"C’è un fil rouge che unisce Jaron Lanier a Simon Reynolds. Un ponte invisibile collega il capitolo nove del pamphlet anti-web 2.0 di Lanier, Tu non sei un gadget (Mondadori, 2010) a Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato (ISBN Edizioni, 2011), il nuovo, esplosivo saggio di uno dei più noti critici musicali britannici, Simon Reynolds. Tra le innumerevoli invettive lanciate dal rasta di Berkeley, mi aveva colpito in particolare quella rivolta all’industria musicale, ivi definita “stagnante” e “ossessionata dal proprio passato”.
Secondo Lanier, la musica contemporanea è affetta da una sindrome letale, una “sonnolenza persistente” provocata dalla proliferazione incontrollata di offerta disponibile su internet. Ne ha risentito la produzione contemporanea, caratterizzata da una piattezza senza precedenti. Citando l’antropologo Steve Barnett, Lanier conclude che la nostra cultura presenta tutti i caratteri della “pattern exhaustion” (lett. esaurimento di possibili traiettorie), patologia che caratterizza quelle culture che “hanno perso vitalità e forza creativa per via dell’esaurimento sistematico dei modelli disponibili”.
Per tanto,
“La musica pop creata tra la fine degli anni novanta e la fine degli anni Zero non è caratterizzata da alcun stile – non possiede cioè uno stile particolare per la generazione che è cresciuta ascoltandola. Si potrebbe affermare che il processo di reinvenzione della cultura attraverso la musica sia giunto al termine” (Lanier, 2010).
Lanier conclude la sua analisi con una domanda retorica:
“Dov’è la nuova musica? Ogni cosa è retro, retro, retro… [...] Esistono ovviamente nuovi stili musicali, ma il loro fattore innovativo riguarda esclusivamente alcuni aspetti di natura tecnica […] Quella che chiamiamo ‘nuova musica’ presenta caratteri fortemente nostalgici anziché innovativi. E dato che le genuine esperienze umane sono da sempre uniche ed irripetibili, la musica pop della nuova era, una musica tutt’altro che originale, è anche priva di autenticità”.
Questo paragrafo sintetizza ed anticipa il messaggio di Retromania, il saggio che esamino attraverso con una serie di post. Lungi dal “recensire” il saggio di Reynolds, mi riprometto semmai di illustrare dettagliatamente alcune delle sue osservazioni sul rapporto tra società e tecnologia. Già perché Retromania non è semplicemente una dissertazione sulla musica pop contemporanea, ma una penetrante riflessione sul rapporto tra la pop culture nel suo complesso e le culture digitali, una disamina approfondita che evoca, tra i tanti, McLuhan, Gibson, Derrida, Adorno, Marinetti e lo stesso Lanier. Un tour de force intellettuale che ha il grande pregio di essere sempre accessibile e stimolante.
L'analisi procederà attraverso il commento ragionato di alcuni passaggi di Retromania. Avvertenza: avendo letto il saggio in inglese, le mie traduzioni non corrispondono necessariamente a quelle della versione in lingua italiana, che sarà disponibile a settembre grazie ai tipi di ISBN Edizioni. In tutti i casi, tuttavia, ho tentato di mantenere inalterato il messaggio di Reynolds.
Partiamo.
Come abbiamo anticipato, la tesi portante del saggio di Reynolds è che la musica ha smesso di evolversi. Di crescere. Non ci troviamo in una fase di plateau, bensì di impasse. La ragione, secondo il critico inglese, è di natura essenzialmente tecnologica: la sovrabbondanza di materiale musicale accessibile su internet – a costo zero, 24 ore al giorno, trecentosessanta cinque giorni l’anno – ha finito per creare una situazione surreale in cui passato, presente e futuro coesistono, ma in forma caotica e potenzialmente distruttiva. Meglio ancora, parafrasando Nietzsche, oggi viviamo in un eterno presente. Reynolds parla di un "Lungo presente". Alla passione neofila per il nuovo – si è sostituita un’ossessione retro che prevede il culto e il recupero costante del passato. La neofilia è stata rimpiazzata dalla tecno-necrofilia.
Il revival permanente non è un fenomeno necessariamente nuovo, nota correttamente Reynolds. Dopo tutto, quasi mezzo secolo fa, McLuhan scriveva che "Una delle caratteristiche essenziali della perdita di identità [tipico dell'era elettronica] è la nostalgia, il revival dell'abbigliamento, delle danze, della musica e degli spettacoli." Secondo il teorico canadese, "Viviamo grazie ai revival. Ci dicono chi sono, o per lo meno, chi eravamo".
Quello che stupisce, tuttavia, è la pervasività del revival, da un lato, e l’accettazione sociale dall’altro. Detto altrimenti, la nostra società, nel suo complesso, ha smesso di creare nuovi suoni limitandosi a ricreare quelli esistenti. Ma la fine dell’originalità, anziché indignare o indispettire il pubblico – o quanto meno la critica – è stata accolta da sostanziale indifferenza, nel peggiore dei casi, o da un sincero entusiasmo, nel migliore (?). Si consideri questo passaggio:
“L’arte della riproposizione è strettamente connessa a quella della copia, che abbraccia fenomeni apparentemente distanti come il karaoke, programmi televisivi come Stars in Their Eyes in cui individui qualsiasi impersonano delle celebrità, la sottocultura (enorme, ma praticamente ignorata dai mass media) delle tribute bands, la fan fiction online e le parodie su YouTube, fino al successo mostruoso di videogame musicali come Rock Band e Guitar Hero”.
[Segnalo, en passant, un’aporia tanto ovvia quanto sorprendente: nelle trecento e passa pagine del suo trattato Reynolds non spende nemmeno una riga per definire l’elusivo concetto di originalità. Un peccato tutt’altro che veniale, considerando che Retromania lamenta la fine della creatività e l’appiattimento della produzione culturale del ventunesimo secolo, per lo meno per quanto concerne la musica pop. Torneremo sul luogo del delitto nei prossimi giorni.]
Secondo Reynolds siamo vittime (in)conscienti di una “crisi di uber-documentazione”, favorita da fenomeni di “revival collettivo” che hanno trovato la loro massima espressione in siti di video sharing come YouTube: “Oggi, anche la performance musicale più irrilevante viene archiviata all’istante da un membro della band per i posteri o caricata su YouTube come filmati non-ufficiali di un fan via smartphone prima ancora che la performance sia finita”.
E poi:
“YouTube ha raggiunto un importante traguardo: trasmette in streaming oltre due miliardi di video al giorno e rappresenta il terzo sito più visitato al mondo. Ogni minuto, oltre ventiquattro ore di video vengono caricati sui suoi server. Un individuo dovrebbe vivere in media 1700 anni per poter consumare le centinaia di milioni di video presenti online. YouTube non è solo un sito internet e nemmeno una tecnologia: è un intero campo di pratiche culturali”
E poi:
“Il labirinto proliferante della reminiscenza collettiva indotta da YouTube rappresenta un esempio paradigmatico della crisi di uber-documentazione prodotta dalla cultura digitale. Nel momento in cui le informazioni culturali si smaterializzano, la nostra capacità di memorizzarle, classificarle e consumarle viene enormemente aumentata e implementata”
Il fenomeno, tuttavia, presenta numerosi aspetti negativi. “Non esiste alcuna prova che YouTube abbia incrementato in modo significativo la nostra abilità di gestire tutta quella memoria”.
Anzi, evocando il Nicholas Carr di The Shallows (2010), Reynolds afferma che
“Promuovendo la logica dell’estratto, YouTube finisce per produrre una frammentazione delle narrazioni lunghe (il programma, il film, l’album) ma questa funzione incoraggia gli spettatori a frantumare gli estratti in unità di dimensioni ancora minori, erodendo la nostra abilità di concentrarci e la nostra disponibilità a lasciare che una narrazione si sviluppi secondo il ritmo stabilito a monte dal suo creatore […] Al pari di internet, [YouTube] finisce per ridefinire la nostra temporalità, rendendola sempre più compressa e fragile: ingozzandoci di bytes di informazione, svolazziamo da una pagina all’altra in cerca di snack zuccherosi”
Detto altrimenti, secondo Reynolds YouTube produce impazienza, incapacità di concentrazione e rifiuto di modelli narrativi definiti da terzi (gli autori), in favore di un consumo frantumato, frazionato e superficiale. Tesi apocalittica, indubbiamente, che trova comunque diversi sostenitori.
Non solo:
“YouTube è, al tempo stesso, un attore e un simbolo di un drastico cambiamento: attesta l’espansione delle capacità mnemoniche dell’umanità”
Si tratta di una memoria estrinseca all’individuo. Una memoria collettiva e condivisa, che si aggiorna in tempo reale. L’effetto collaterale è che “abbiamo a disposizione, sia in quanto individui che civiltà, una quantità innumerevole di ‘spazio’ da riempire per mezzo di memorabilia, documentazione, registrazioni… Ogni aspetto della nostra esistenza diventa potenzialmente archiviabile”.
Ma non tutti gli aspetti della nostra esistenza meriterebbero un’archiviazione, lascia intendere Reynolds.
L’accesso incondizionato ed indiscriminato agli archivi musicali del ventesimo secolo avrebbe generato forme di bulimia sonora: “Siamo diventati vittime della nostra crescente capacità di memorizzare, archiviare, organizzare e condividere enormi quantitativi di informazioni culturali”. Questo fenomeno ha compromesso da un lato la nostra predisposizione ad apprezzare la musica – la facilità di accesso ha prodotto secondo Reynolds un appiattimento del gusto – dall’altro, ha messo in crisi la verve creativa, normalizzando la tesi dei postmodernisti secondo la quale non è più possibile creare contenuti originali, tanto vale riciclare il materiale esistente.
Ora, considerando che queste idee circolano ormai da oltre tre decadi, dove sta la novità?
Puntuale la risposta di Reynolds:
“Non solo non è mai esistita una società così ossessionata dagli artefatti culturali del nostro recente passato, ma non è mai esistita prima d’oggi una società in grado di accedere al nostro recente passato in modo così facile e diffuso”.
Se fino agli anni novanta la scena musica era caratterizzata da una spinta alla sperimentazione, al nuovo, al differente, con l’avvento della cultura digitale – nella fattispecie: internet, i servizi di condivisione peer-to-peer, il formato MP3, l’iPod, le streaming radio online etc. – la musica ha smesso di evolversi. Ha cessato di rinnovarsi e reinventarsi. Si è fatta strada quella che Reynolds definisce “iper-stasi”. La fine della musica pop coincide con l’esaurimento della scena rave britannica degli anni ’90 – una scena fortemente influenzata dallo sviluppo della tecnologia digitale, si noti. Reynolds decostruisce – e in larga parte distrugge – decade per decade - i cosiddetti movimenti e stili innovativi, sottolineando che persino fenomeni considerati “rivoluzionari” come il punk, sono piuttosto delle re-azioni alle tensioni dell’epoca. Il punk, in particolare, attesta un desiderio primordiale di fare ritorno a un suono “duro e puro”, scevro dalle contaminazioni borghesi del pop rock di band come The Eagles e Fleetwood Mac.
Reynolds demolisce inoltre i cosiddetti miti della scena digitale contemporanea. Il critico non risparmia critiche feroci al re del mash-up, Girl Talk, che abbiamo incontrato qualche anno fa. Greg Gillis viene liquidato come sottoprodotto dell’hype iper-tecnologica della prima decade del ventunesimo secolo. A differenza del sampling e del remix introdotti dall’hip hop nei primi anni ottanta, il mash-up, scrive Reynolds, è “un genere sterile” che non lascerà alcun segno.
Se è vero che la cultura digitale ha accelerato il processo di involuzione della musica pop, le origini del collasso vanno ricercate negli anni sessanta. Il paradosso, secondo Reynolds, è che se da un lato questa decade è stata caratterizzata da una spinta all’innovazione e alla sperimentazione senza precedenti nel ventesimo secolo, dall’altro ha segnato l’inizio di un processo retrologico che ci ha condotto all’impasse attuale. Il fascino – anzi, ossessione – per il futuro caratterizzato dalla scena fashion londinese degli anni Sessanta – avrebbe dato inizio a un fenomeno di proto-retro in cui l’ultramoderno si fonde con l’agreste e con il culto del rurale, aspetti che ritroviamo tanto nella scena psichedelica britannica di quegli anni sia nella controcultura californiana che ha ispirato, tra le altre cose, la rivoluzione informatica (Fred Turner ha illustrato splendidamente la relazione tra controcultura e cultura digitale nel suo saggio From Cyberculture to Cyberculture: Stewart Brand, the Whole Earth Network, and the rise of Digital Utopianism, University of Chicago Press, 2008, inedito in Italia).
Nelle prime pagine di Retromania, Reynolds spiega che, in origine, il “termine ‘retro’ aveva un significato specifico: indicava la feticizzazione consapevole per lo stile di una particolare epoca (musica, fashion, design), una feticizzazione espressa per mezzo di tecniche di pastiche e citazione”. Oggi tuttavia, “il termine viene usato in modo assai più vago per descrivere tutto quello che si riferisce al passato recente della nostra cultura pop, dal catalogo musicale di YouTube alle trasformazioni radicali del consumo di musica rese possibili dall’avvento di dispositivi come l’iPod (spesso usato come alternativa alle cosiddette radio oldies, specializzate in vecchi successi)”.
La crisi etimologica del termine “retro” – causata dalla sua incontrollabile diffusione sociale – ha generato un fenomeno che Reynolds chiama “retromania”, un’ossessione compulsiva per il passato prossimo che ha raggiunto oggi un punto di non ritorno. La retromania, secondo il critico britannico, “costituisce il paradigma creativo di hipsterlandia, l’equivalente pop della ‘cultura alta’”. L’ossessione per il riciclo e il revival caratterizza ogni fascia demografica e in particolare quella tecnologicamente più smaliziata. Rispetto al passato, tuttavia, la tecnologia non viene usata per creare nuovi suoni, ma per recuperare, imitare, doppiare e rad-doppiare quelli vecchi. “Invece di essere pionieri e innovatori,” lamenta Reynolds, i nuovi creatori sono “curatori e archivisti”. Invece di introdurre il futuro, emuliamo sistematicamente il passato. Qual è il risultato? “L’avanguardia è degenerata in retroguardia”. L’impulso trainante odierno non è di tipo esplorativo, ma recuperativo. Il paradigma dominante è eminentemente “archeologico”. Si tratta, beninteso, di un recupero meccanico, privo di mordente. Il nostro consumo musicale, sostiene Reynold, non è più “introspettivo, ma retrospettivo”. Ovvero: recuperiamo per il gusto di recuperare, non per comprendere meglio noi stessi o la società in cui viviamo.
Per spiegare la sorprendente evoluzione del concetto di “retro”, Reynolds chiama in causa l’analoga trasformazione della nozione gemella di nostalgia. “L’invenzione della nostalgia, a livello concettuale e terminologico, risale al diciassettesimo secolo. Il suo inventore è il medico Johannes Hofer, che ha coniato il termine per descrivere una condizione che affliggeva i mercenari svizzeri durante lunghe missioni lontano da casa. La nostalgia indicava, letteralmente, il desiderio struggente di fare ritorno alla terra natia, ed era caratterizzata da sintomi come melanconia, anoressia e perfino suicidio”. In origine, la nostalgia si riferiva a un desiderio spazialmente definito. Come tale, poteva essere curata solo attraverso uno spostamento, una migrazione, un ritorno. La nostalgia “consisteva nel dolore provocato dal dislocamento”.
Successivamente, tuttavia, il termine è stato usato per indicare uno stato emotivo legato al tempo più che allo spazio. Si prova nostalgia non tanto per un luogo, ma una fase storica. Da individuale, la nostalgia diventa “un’emozione collettiva caratterizzata dalla bramosia per un’epoca più felice, più semplice, più innocente”. Le implicazioni sono tanto ovvie quanto pregnanti. Nell’accezione moderna, la nostalgia si configura come “un’emozione impossibile, o, per lo meno, incurabile: l’unico rimedio, infatti, richiederebbe il viaggio nel tempo.” Non solo: ai giorni nostri, la nostalgia si fa sempre più intensa perché viviamo in un’epoca fortemente accelerata, segnata da trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche continue. Il risultato? “Il nostro presente è diventato alieno”. “Attorno alla metà del ventesimo secolo, la nostalgia non era considerata una patologia, ma un’emozione universale”. In altre parole, la nostalgia rappresenta la condizione essenziale dell’essere umano. Come tale, essa si estrinseca attraverso forme sempre più diffuse di retromania.
Stando a Reynolds, il retro presenta tre caratteristiche fondamentali: “Il retro ha sempre a che fare con il passato recente, con cose che fanno parte del nostro bagaglio di ricordi […] Riguarda solitamente artefatti della cultura pop […] e tende non tanto a idealizzare o rendere sentimentale il passato, ma a usare il passato come veicolo di divertimento o fascino”. In altre parole, il retro “utilizza il passato come un archivio di materiali da cui estrarre capitale sub-culturale (il cosiddetto fattore ‘cool’) attraverso il riciclo e la ricombinazione: il bricolage di un bric-a-brac culturale”.
L’effetto collaterale, secondo Reynolds, è che “la presenza del passato nelle nostre vite è incrementata a livello incommensurabile. E si tratta di una presenza insidiosa.” Infatti, “il passato non può fare altro che superare il presente, non solo in quantità ma anche in qualità”.
Quali sono le implicazioni a livello sociale, culturale e tecnologico di questo regime di archiviazione pervasiva e di presentificazione persistente? Qual è il rapporto tra l’iPod e la “coda lunga” descritta da Chris Anderson? Cosa vuol dire produrre, consumare e condividere musica nell’era digitale?
PARTE SECONDA
Come abbiamo visto in precedenza, secondo Simon Reynolds, la nostra epoca è frustrata da un paradosso di fondo:
“Sul piano culturale, stiamo sperimentando un bizzarro amalgama di velocità estrema e punti morti. Il fenomeno permea ogni livello del web 2.0: il susseguirsi rapidissimo di notizie (news ufficiali, aggiornamenti in tempo reale, argomenti trendy su Twitter, il chiacchiericcio costante dei blog etc.) è accompagnato dalla caparbia persistenza di detriti nostalgici”.
Questa contraddizione - da un lato, Google tenta di prevedere il futuro anticipando ogni nostra possibile domanda, dall'altro, siamo impantanati nelle sabbie mobili del revival perpetuo - trova la sua massima espressione in un meta-sito come YouTube, la cui interfaccia, scrive Reynolds, è stata appositamente progettata per annullare qualsiasi distinzione di natura temporale. Versioni apocrife, remix, cover (autorizzate o meno) hanno spesso maggiore visibilità e hits dei cosiddetti “video originali” che insieme omaggiano e parodiano, celebrano e sbeffeggiano. La giustapposizione tra passato remoto e passato prossimo, produce un'omogeneizzazione di ogni contenuto.
“YouTube – aggiunge Reynolds – rappresenta un esemplare compromesso culturale tra qualità e convenienza”. Il caos e l’opacità di YouTube sono controbilanciati da una facilità di accesso a materiali audiovisivi spesso rari o introvabili. Ma la difficoltà nel determinare con correttezza la data e il luogo di produzione di videoclip, performance, concerti genera un senso di disorientamento. YouTube è un non-luogo e un non-tempo, un “lungo presente”. Ergo, la pop culture del ventunesimo secolo non sembra possedere alcun carattere distintivo perché accorpa in sé tutti i caratteri delle decadi precedenti.
“YouTube incoraggia una sorta di deriva attraverso le colonne laterali che presentano video e link ipertestuali a contenuti spesso tangenziali o debolmente correlati al video che stiamo fruendo in quel momento”
In altre parole, su YouTube nulla è davvero importante perché tutto è ugualmente (ir)rilevante. Prevale un'ottica di consumo centrifugo: il contenuto principale - il video in primo piano - viene sistematicamente depauperato della sua rilevanza da un design che incoraggia l'utente a cliccare altrove, a cliccare ancora, a cliccare sempre.
Allo stesso tempo, Reynolds riconosce che YouTube ha indubbiamente democratizzato l’accesso alla pop culture, consentendo anche all’uomo della strada, al ragazzino alle prime armi, al producer da cameretta d creare e distribuire contenuti audiovisivi a un’utenza (potenzialmente) planetaria. Reynolds condivide dunque le tesi di Chris Anderson espresse nel saggio La coda lunga, ma allo stesso tempo porta in primo piano un aspetto interessante, sfuggito alla maggior parte dei commentatori.
Secondo Anderson, la rete ha favorito l'avvento di un nuovi modelli economici, ridistribuendo la forza e il peso delle forze in campo. Nel caso specifico della musica pop, la rete ha ridotto la distanza tra le grandi corporation e le piccole etichette indipendenti, consentendo anche anche alle label minori - nonché ed artisti underground - di entrare a diretto contatto con i consumatori/fans/utenti, rompendo il monopolio delle major, delle grandi catene e delle superstar.
Secondo Reynolds, l’aspetto più interessante del modello descritto da Anderson “è che questo nuovo scenario celebra il passato più del presente, ridimensiona l'importanza delle 'cose nuove' per promuovere il catalogo”, lo stock, l'invenduto, il magazzino, insomma, la produzione passata che non ha goduto di particolare attenzione da parte della massa. Detto altrimenti: la 'coda lunga' ha incentivato l'attiva e sistematica "riscoperta" di zone meandriche del nostro archivio musicale anziché favorire l’emergere di nuovi stili ed espressioni creative. “In un certo senso, il passato è sempre stato in competizione con il presente, sul piano culturale. Ma questa sfida è stata progressivamente vinta dal passato, grazie alle innovazioni tecnologiche avvenute tra la fine degli anni novanta e l’inizio del ventunesimo secolo,” scrive Reynolds.
Si tratta, beninteso, di un passato contraffatto e compromesso da gravi limiti di natura tecnologica. Per esempio, Reynolds non lesina critiche feroci al formato MP3, ivi definito “piatto” e “insipido”. Il passato che consumiamo attraverso i nostri iPod è solo una copia sbiadita della “cosa reale”, ma a parte pochi puristi - e qualche critico musicale - nessuno sembra preoccuparsene. La “piattezza” sonora dell’MP3 secondo Reynolds ha finito per contaminare tutti i generi, per cui oggi non c’è da sorprendersi se la musica si assomigli un po’ tutta. Abbiamo "pagato" i vantaggi dell’MP3 – praticità, leggerezza, trasferibilità – con una perdita di profondità che, alla lunga, ha finito per renderci sordi. Culturalmente sordi:
“Va da sé che solo chi è maturo abbastanza da aver sperimentato la musica attraverso vinile e compact disc percepisce una 'perdita' di qualità sonica. Per la maggior parte degli ascoltatori, specie quelli più giovani, l’MP3 e la musica ascoltata attraverso gli autoparlanti del computer è la musica in quanto tale”.
Reynolds conclu che che la promessa di un futuro migliore – qualitativamente migliore – è stata sconfessata dall’avvento di un formato di registrazione tecnicamente inferiore a tutti quelli che lo hanno preceduto [...] La differenza tra un CD e un MP3 è paragonabile a quella tra un succo d’arancio “non concentrato” e quello ricostruito ex post grazie a succhi concentrati,”
C'è di più e c'è di peggio: il successo dell’MP3 ha svilito il valore stesso della musica, subordinando la pratica dell'ascolto all'esecuzione di altre attività. Detto altrimenti, la logica dominante dell'era digitale - il multitasking coatto - ha trasformato la musica da piatto forte a mero contorno:
“La maggior parte delle innovazioni ‘consumer-friendly’ dell’era digitale vanno nella direzione della gestione del tempo: essere liberi, oggi, significa essere liberi di farsi distrarre o interrompere durante un programma televisivo senza 'perdersi nulla' (pausa, rewind). Vuol dire essere liberi di definire a piacimento le modalità di fruizione di uno show, posticipando il consumo 'in diretta' a una giornata piovosa grazie ai DVD registrabili o a dispositivi come TiVo […] E non dimentichiamo che il telecomando del lettore CD ha subordinato il consumo della musica alla logica dello zapping”.
In breve, l’innovazione tecnologica dell’era digitale avrebbe svilito la natura propriamente artistica della performance musicale, elevando - in apparenza - il ruolo e la funzione dell'ascoltatore nelle dinamiche di consumo:
“Avvantaggiando l’utente rispetto al creatore di contenuti, la musica ha perso la sua capacità di catturarci, di indurci in uno stato di abbandono estatico. Il che implica che ogni nostra conquista è stata accompagnata da una corrispondente perdita. In secondo luogo, sta diventando chiaro a tutti che la temporalità compressa e fragile della vita online non apporta alcun beneficio al nostro benessere psicologico: al contrario, ci rende impazienti, erode la nostra capacità di essere presenti […] Siamo vittime della nostra distrazione, ci interrompiamo continuamente, e riduciamo in frantumi esperienze un tempo 'solide'. Non è solo una questione di tempo: viene a mancare l’integrità del ‘qui’ oltre a quella dell’’adesso’”.
Come attesta questo passaggio, Reynolds condivide le critiche di Nicholas Carr e di tutti coloro che vedono nelle dinamiche di interazione online una minaccia e un pericolo insieme sociale e culturale, individuale e collettivo. Infine, la sovrabbondanza di opzioni e possibilità di consumo ci atterrisce ed annichilisce: “Sotto molti punti di vista, il costante stato di distrazione rappresenta la risposta appropriata alla sovrabbondanza di offerta e di scelte possibili.” E l'illusione di poter scegliere tra dieci milioni di brani, secondo Reynolds, conduce alla paralisi e all'apatia.
Non solo: la sindrome di attenzione deficitaria – patologia par excellence dell’epoca contemporanea – è il sottoprodotto di una cultura che predilige il rapido e il superficiale rispetto al lento e al profondo. “Al pari di molte altre disfunzioni del tardo capitalismo, la fonte del disturbo non è interna al sofferente, ma è causata dall’ambiente in cui viviamo. In questo caso, dal datascape. La nostra attenzione è perpetuamente dispersa, titillata, iper-stimolata.”
La cultura digitale ha creato un nuovo tipo di essere umano: l'individuo come appendice della macchina. Ci illudiamo di usare i computer per lavorare, per “fare cose”, quando in realtà sono i computer a usarci. “Lo schermo e la mia persona sono la stessa cosa: le varie pagine e finestre creano un ambiente di “attenzione parziale continua” (riprendendo l’espressione coniata dalla ricercatrice Microsoft Linda Stone per descrivere la coscienza frammentata prodotta dal multitasking). […] L’io ‘presente’ che abito è fragile e frantumato, in costante oscillazione tra altri-tempi e altri-dove”.
Un altro effetto collaterale consiste nella ridefinizione della nozione di “noia”. Prima di internet e degli smartphone, la noia era “alleviata grazie al consumo di libri, riviste, album musicali, tutte risorse relativamente costose e limitate. […] Si trattava di un’economia culturale caratterizzata dalla scarsità e dal ritardo. […] Oggi la noia è differente. La noia è sinonimo di super-saturazione, distrazione, irrequietezza.”
Reynolds non lo afferma esplicitamente, ma si potrebbe affermare che in aggiunta al disordine di attenzione deficitaria, la patologia dell’era digitale è l’iper-attività, una produttività schizofrenica, fine a se stessa, fortemente neurotica.
“La noia attuale non rappresenta un sorta di fame a uno stato di privazione. Si tratta, piuttosto, della perdita dell'appetito culturale, una risposta quasi automatica all’eccesso di stimolazione che assorbe tutto il nostro tempo e la nostra attenzione”
Reynolds si domanda: “Può una cultura sopravvivere in uno contesto in cui la nozione stessa di limite – all’accesso, al consumo – ha perso di significato?”
Il super critico confessa di essere un consumatore accanito di prodotti culturali: musica, libri, fumetti… Ora, l’avvento della cultura digitale ha sistematicamente smaterializzato artefatti culturali che un tempo occupavano spazio fisico. In uno dei capitoli più appassionanti di Retromania, il critico britannico descrive le tendenze all’accumulo di collezionisti, fanatici e cultori che hanno scaricato l’impossibile grazie a sistemi di peer-to-peer, torrent, blog, siti come MegaUpload, RapidShare et similia. Niente di nuovo, ma la prosa di Reynolds coniuga alla perfezione Walter Benjamin con Western Digital. Certi passaggi lasciano il segno. Questo, per esempio:
“L’accumulo spropositato di musica digitale comincia ad esercitare una pressione subliminale. sul collezionista, che inevitabilmente, si domanda, a un certo punto, se gli resta abbastanza tempo per consumare l’enorme quantitativo di bit”
Le nostre collezioni di musica in formato MP3 portano in primo piano un altro paradosso: l’accumulo di brani non è limitato tanto dalle caratteristiche dell’hardware – gli hard disk a un terabyte di oggi diventeranno petabyte domani, e poi c’è sempre la nuvola – e nemmeno da istanze economiche, vista la proliferazione di musica "pirata". Il vero vincolo, l'unico limite, è il meatware. Tradotto in italiano: “il collezionista sperimenta la sua prima vera crisi di mezza età quando la sua collezione smette di produrre piacere e diventa un simbolo della morte, dello scorrere inesorabile del tempo”.
Da un lato collezioniamo musica (ma anche video, games e ebook) in forma quasi compulsiva per posticipare la morte. Ci illudiamo, infatti, che il consumo di merce culturale possa proteggerci - o almeno ritardare, l'inesorabile scomparsa. Dall’altro la nostra collezione ci rende consapevoli della nostra fine, dei limiti temporali con i quali dobbiamo fare i conti. Comunque la mettiamo, siamo destinati allo scacco. Non stupisce che oggi molti abbiano smesso di collezionare musica, affidandosi agli algoritmi di last.fm, pandora e altri servizi analoghi, per sapere cosa potrebbe piacerci. Le radio in streaming e i sistemi di raccomandazione “audio-genetica” rappresentano secondo Reynolds l’ultimo esempio di una cultura in cui la musica è ridotta a mero background. Per proteggerci dall’eccesso di offerta disponibile, finiamo per delegare a terzi (le macchine) l’onere – ma anche il piacere – di creare delle playlist. Non abbiamo tempo di scegliere, per tanto lasciamo che le macchine scelgano (e consumano) per noi. Una tesi che richiama alla mente la celebre teoria dell'interpassività formulata dal filosofo Robert Faller, ma "upgradata" da Slavoj Zizek...
Non è indispensabile leggere tra le righe per comprendere che il messaggio di Retromania è conservatore, se non addirittura reazionario. Reynolds prova nostalgia per un passato dominato da un regime di scarsità, un passato in cui la musica pop era consumata ed apprezzata da un numero ristretto di "cultori". Secondo il critico, la democratizzazione dell'accesso ha prodotto, paradossalmente, un eccesso - il consumo generalizzato è un consumo generico. La persistenza ed insistenza del passato domina il nostro presente. A livello produttivo, creatività ed originalità non possono sussistere in uno scenario in cui omaggio, citazione e plagio sono usati come sinonimi (per quanto, lo ricordo, Reynolds non definisce in modo preciso cosa intenda per "originalità"). Come uscire, dunque, da questo cul-de-sac?
PARTE TERZA
In uno dei migliori capitoli di Retromania, Reynolds racconta la sua smisurata passione per due attività che, nell’era digitale, sono diventate quasi congruenti: la collezione e la condivisione di musica. Nello specifico, il critico britannico esamina due fenomeni peculiari: sharity e franticity. Il primo, frutto della conflazione di tre termini - “share + charity + rarity” - indica la distribuzione attraverso blog e servizi di peer-to-peer, di musica rara, oscura e di nicchia, una tendenza che secondo Reynolds esprime in modo esemplare alcune contraddizioni tipiche del web 2.0, esemplificata dallo slogan/mantra: “Sono appena entrato in possesso di qualcosa che nessun altro ha mia visto o sentito, quindi devo renderlo immediatamente disponibile al MONDO INTERO”. Questa filosofia “combina generosità di natura competitiva alla pura autocelebrazione”. Si tratta, in altre parole, di accumulare e rendere visibile il proprio capitale subculturale attraverso la diffusione di materiali sonori arcani, esoterici e oscuri - mix sconosciuti, lati-B mai pubblicati, registrazioni in studio mai sentite - ignorando i desiderata delle etichette ufficiali. Secondo Reynolds, ciò che distingue il fenomeno dello sharity dalpeer-to-peer 'tradizionale' è “l’esibizionismo di fondo dei suoi membri", che competono tra di loro per individuare e distribuire i file mp3 più rari. I praticanti ritengono che il loro modus operandi sia "un atto nobile", doveroso, socialmente utile, se non culturalmente necessario. Il che spiega perche' "molti blogger investano considerevole tempo e risorse per riprodurre nei minimi dettagli e distribuire online le illustrazioni, le copertine, i testi, insomma i contenuti di interi boxset. L'etichetta “share” presenta come ‘altruistica’ un’attività legalmente ambigua – de facto, lo sharity è un’aperta violazione del copyright altrui. Come tale, è un bizzarro sodalizio di consumismo e comunismo.”
Questo “bizzarro sodalizio di consumismo e comunismo” informa gran parte delle prassi tipiche del web 2.0. Il collezionismo pubblico descritto da Reynolds ricorda l'attività dei “dubbers” occidentali che da anni traducono, doppiano e mettono in circolazione attraverso internet anime e manga disponibili solo in Giappone, un fenomeno studiato in modo esemplare da Mimi Ito, oppure degli appassionati di emulazione videoludica, che competono tra di loro per individuare le ROM più rare per sistemi videoludici ormai obsoleti.
Per quanto eterogenee, tutte queste pratiche sono accomunate da quella che Reynolds chiama “la scarica di adrenalina innescata dall’idea stessa di connettività”: per quanto effimera, eterea, intangible, l’illusione di stabilire un contatto con un altro essere umano grazie alla condivisione di materiale culturale non ha perso il suo fascino. Al contrario, ha dimostrato la validità delle teorie del sociologo Marcel Mauss sull'economia del dono e dello scambio all’interno delle società primitive.
Reynolds non nasconde tuttavia le proprie ansie per gli effetti collaterali della cultura del download selvaggio. Paragonandolo al consumo di sostanze stupefacenti, il critico musicale ritiene che “l’accesso assoluto corrompe assolutamente” e che “il download conduce a un abisso esistenziale, un abisso le cui profondità sono direttamente proporzionali al vuoto delle nostre vite. Il download degenera rapidamente in vero e proprio disturbo psicologico", un disturbo che esprime "l’essenza stessa del consumismo”.
In questo brillante passaggio, Reynolds descrive le condizioni disperate dei tossicodipendenti da download:
“Finisci per accumulare così tanti album, bootleg dei concerti e DJ set che non riesci più a trovare il tempo necessario per decomprimerli e ascoltarli. Così come il crack segue la cocaina, capisci di avere dei problemi seri quando cominci a skippare il brevissimo, ma irritante intervallo temporale che intercorre tra il momento in cui i files diventano disponibili per il download e download in quanto tale e lo posticipi a un momento successivo, creando liste zeppe di link a ‘cose da scaricare’. Ho cominciato solo recentemente a cancellare alcuni gigabyte di roba scaricata in passato. I veri collezionisti sanno benissimo che la quantità è la vera nemesi della qualità dato che più materiale ammassiamo, meno intensa è la relazione che possiamo instaurare con uno specifico brano o album.”
Reynolds definisce questo disagio psicologico - prodotto dall’accesso incondizionato e dalla sovrabbondanza di offerta musicale (ma il fenomeno riguarda anche giochi, film, fumetti, libri) - “franticity”, un neologismo che indica quella “fissazione compulsiva” che contraddistingue “il pulsare neurologico della vita online”. Questo stato di nevrotica insofferenza per l’attesa, anche minima, e di consumo bulimico di contenuti culturali, ha prodotto effetti deleteri sulla musica, al punto da averla resa “inconsistente – non solo in termini di smaterializzazione – il codice è liquido, non solido – ma anche qualitativo”. A questo proposito, il mash-up, rappresenta secondo Reynolds l’apoteosi di una tendenza nichilista al crasso riciclo di detriti musicali. Creare mash-up, scrive il critico con evidente disgusto, è un’attività fine a se stessa, sterile, motivata non tanto da urgenza creativa, ma dalla mera disponibilità di mp3.
Ora, il dispositivo tecnologico che piu' di ogni altro ha compromesso lo statuto artistico e culturale della musica in quanto tale è l’iPod, “espressione compiuta di una mentalità votata all’accumulo e alla costante riclassificazione dei contenuti memorizzati”. Attraverso un’analisi critica di uno dei migliori saggi sugli effetti sociali e psicologici del consumo di musica attraverso il lettore mp3 di Apple mai pubblicati- iPod, Therefore I Am: Thinking Inside the White Box (2005) di Dylan Jones – Reynolds spiega che attraverso questo dispositivo “collezione e ricordo finiscono per convergere e confondersi”, con l’aggravante che “l’iPod promette il mito del controllo totale e individuale su enormi quantità di musica”. Reynolds considera l’iPod una tecnologie più asociali di sempre: “Cos’è più asociale? Guidare con il volume dello stereo a palla, girare per la città con una radio portatile al massimo, oppure camminare per strada con le cuffie dell’iPod infilate nelle orecchie?”. Se nei primi due casi il soggetto “contribuisce a modo suo alla vitalità cittadina attraverso la diffusione di suoni”, nel caso dell’iPod, “l’individuo si nega volontariamente, rifiuta di prendere parte alla vita urbana”. Ergo: “l’iPod è fondamentalmente asociale”. Notiamo, en passant, che critiche analoghe erano state sollevate, nei primi anni ottanta, al walkman: il lettore portatile di Sony era stato infatti accusato di isolare gli esseri umani e di promuovere un ethos basato sull'indifferenza e l'apatia. Tuttavia, le apocalittiche profezie non hanno trovato riscontri empirici: siamo sopravvissuti al walkman, nonostante tutto, no?
Lo sdegno di Reynolds per l'iPod e per la "logica dello shuffle" che ha promosso è secondo solo al suo disprezzo per quel proto-genere musicale che è il mash-up,
" [P]rodotto dalla medesima rivoluzione tecnologica [sottesa all'iPod]: la compressione delle informazioni musicali in forma di mp3 e l'incremento della larghezza di banda che ha consentito di trasmettere musica via internet a una velocità accettabile per le masse. Per quanto alcuni mash-up siano stati distribuiti sotto forma di singoli o album su CD, la maggior parte degli ascoltatori li hanno fruiti sotto forma di file mp3 circolanti in rete."
E poi:
"Ravvisiamo una seconda affinità tra iPod e mash-up: sotto un certo punto di vista, il mash-up non è che una mix-tape o una playlist iper-concentrata, così concentrata che due canzoni vengono suonate in modo simultaneo anziché consecutivo."
Conclusione: il mash-up è una forma di "pseudo-creatività che si basa su un'irriverenza innocua e per un puro fandom per il pop: ora, dato che alcuni brani piacciono a tutti, perché non incollarli insieme?"
Reynolds non lesina critiche anche a WIRED, rea di promuovere un ethos pro-tecnologico che non tiene minimamente conto delle conseguenze sociali dell’innovazione. A un certo punto leggiamo: “Per quanto WIRED ami descrivere la tecnologia come un fenomeno necessario, inevitabile, la verità è che le tecnologie non hanno alcuna presa e non lasciano alcun segno qualora il contesto sociale non sia pronto a riceverle: detto altrimenti, il gadget si limita ad articolare e soddisfare un bisogno sociale, ma non è in grado da solo di crearne di nuovi." Ergo, “l’invenzione culturale dei possibili usi di una specifica tecnologia precede sempre la tecnologia stessa”.
Nel caso specifico dell’iPod, Apple ha riscosso un successo planetario non tanto per avere assemblato il miglior lettore mp3. Semmai ha intuito e soddisfatto meglio di altri le aspirazioni/aspettative “della 'Generazione Io', una generazione per la quale la personalizzazione e la customizzazione dell’esperienza di consumo rivestono enormi implicazioni di carattere politico ed esistenziale. […] L’”i” iniziale ha un significato ben preciso: si tratta della mia musica, non della nostra musica”. (Nota: Questo passaggio risulta comprensibile solo considerando che in inglese “I” indica il pronome personale “io”).
L’iPod rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di trasformazione tecnica, commerciale e culturale della musica pop. “In un primo momento – scrive Reynolds – la musica ha subito un processo di reificazione, ovvero è stata trasformata in ‘cose’ (album di vinile, cassette analogiche) che potevano essere comprate, archiviate e gestite in modo personale. Successivamente, la musica è stata ‘liquefatta’ ovvero trasformata in informazioni che potevano essere trasmesse in streaming, trasportate ovunque e trasferite da un dispositivo all’altro”.
Ora, quali sono le conseguenze culturali della progressiva smaterializzazione dei formati di registrazione e dell'avvento di nuove modalità di consumo? Reynolds è apodittico e apocalittico insieme. Il fenomeno ha prodotto una “desacralizzazione e dissoluzione dell’esperienza sociale della musica. Ciò che era un tempo unico e irripetibile diventa ripetibile e ciò che era un tempo collettivo finisce per essere privatizzato”. Ergo, “Viviamo in un’era in cui la musica ha definitivamente perso ogni barlume di ‘kairos’ (termine che nell’antica Grecia indicava il tempo dell’evento o dell’epifania), subordinandosi al ‘chronos’ (il tempo quantificabile del lavoro e del divertimento).” Apple ha trasformato la musica pop in ipop.
Oggi la pop culture sta vivendo l’ennesima trasformazione. La logica del possesso è stata superata da quella dell’accesso: dal disco fisso alla nuvola. Reynolds non fa mistero di provare nostalgia per un’era ormai lontana, l’era della scarsità e dell’accesso limitato, dell’acquisto inteso come rituale: “Con la mercificazione della musica, l’investimento economico finisce per coincidere con quello emotivo. In un regime capitalistico, il denaro è il risultato del lavoro degli individui (per la maggior parte degli individui, si tratta di un risultato assai magro)”. Date queste premesse, “Quando spendevamo i nostri miseri guadagni nell'acquisto merci culturali, investivamo più tempo per goderle fino in fondo”. Secondo Reynolds, per massimizzare il nostro investimento economico ed emotivo, prima dell'avvento di internet prestavamo maggiore attenzione ai contenuti acquistati. Pretendevamo di più. Consumavamo meglio. Nel momento in cui la merce culturale – musica, libri, film etc- - diventa accessibile a costo zero, la nostra attenzione - ma anche i nostri standard qualitativi - entrano in crisi. Per tanto, oggi consumiamo di più, ma consumiamo peggio. Alla logica dell’”Oppure” (ovvero: “Scelgo questo piuttosto che quello e motivo la mia scelta in modo razionale, sulla base di un preciso canone estetico/morale/politico”), tipica di un’economia basata sulla nozione di scarsità, nell’era del web 2.0 si fa strada la logica del “Più/E”, per cui consumiamo quello che scarichiamo in modo distratto, senza problematizzare l'atto del consumo. Alla lunga, questa tendenza finisce per distruggere il valore intrinseco della merce culturale. L'ascolto casuale, generico, qualunquista ha ucciso la musica. “Al consumo approfondito si fa strada un consumo ampio”, conclude Reynolds.
Devo confessare che trovo queste affermazioni discutibili. La tesi secondo cui alcune attività tipiche della cultura digitale – per esempio, il download e il consumo individuale attraverso lettori di mp3 – determinino la fine della specializzazione e dell’ascolto “approfondito” non trova alcun riscontro empirico. Semmai, assistiamo a un proliferare di nicchie e una costante contaminazione di generi (fenomeno che tuttavia Reynolds trova deprecabile). Inoltre, l'idea che l’accesso incondizionato e indiscriminato finisce per polverizzare il valore intrinseco dell’opera – la sua aura, per dirla con Walter Benjamin – è a mio avviso fallace. E' tipica di una mentalità elitaria, non a caso assai diffusa tra quei critici (d'arte, letterari, musicali, cinematografici, videoludici etc.) che ritengono di svolgere il ruolo di arbitri del Buon Gusto e di emissari di entità superiori (l"Autore, la Società, Dio). Ora, la rete e il web 2.0 hanno finito per ridimensionare l'influenza di molti trendsetter – critici di professione in primis – diversificando non solo le prassi di consumo, ma anche della critica (le recensioni user-generated su Amazon, Yelp, Netflix etc., i commenti, i giudizi e le votazioni a fianco di ogni articolo, la proliferazione di blog etc.). Il cambio di paradigma non e' stato digerito dalla vecchia guardia.
Reynolds paragona il download al buffet (“all-you-can-eat”) e l’acquisto di merci culturali analogiche alla formula à la carte: questa analogia gastronomica è significativa perché riflette i medesimi pregiudizi che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha decostruito e smascherato nel libro La distinzione. Critica sociale del gusto, argomentando in modo convincente che lungi dall’essere un'attività “naturale” o "neutrale", l’alimentazione è una prassi socialmente costruita e, come tale, espressione di una logica di classe. Mangiare è un atto comunicativo che consiste nel rendere pubblico o, meglio, ostentare, il proprio status. Il prestigio del buffet è inferiore a quello del consumo à la carte, in quanto si fonda su una logica inclusiva, laddove il secondo è, per sua natura, esclusivo. Il buffet è accessibile a tutti. Il ristorante à la carte a pochi. Infine discutibile la tendenza alla glorificazione dell'acquisto rituale, della feticizzazione dell’analogico, della merce tangibile, rispetto a quella digitale. L’idea che un libro sia culturalmente e socialmente superiore a un ebook è frutto di un'aberrazione. Le idee viaggiano sulla carta e sullo schermo. In modi differenti, ovviamente, ma altrettanto importanti.
Reynolds si dichiara sostanzialmente pessimista circa il futuro della musica in un regime di accesso incondizionato e di consumo iper-personalizzato. Distratti da un’offerta in continua espansione, “tendiamo a dimenticare la realtà dei limiti – delle risorse, del tempo individuale, delle capacità del nostro cervello di processare le informazioni oltre una certa velocità.” Reynolds suggerisce che le tecnologie attuali ci trascendono: viviamo in un ambiente tecno-sociale che supera di gran lunga le nostre capacità di assorbimento'. La conclusione del critico britannico è che viviamo in un’epoca marcata da patologie di consumo sfrenato, patologie cancerogene, terminali. Anche in questo caso, l'analogia è significativa: “Metastasi, termine che indica la diffusione della malattia nel corpo, descrive in forma indiretta la malattia caratteristica del pop postmoderno: c’è una connessione profonda tra la logica del ‘meta’ (referenzialità, copia delle copie) e la ‘stasi’ (l’idea che la storia del pop si sia arrestata)”. C’è troppo di tutto, conclude Reynolds. E il troppo non produce nulla di nuovo: siamo imprigionati in un limbo atemporale e persino i critici di professione non sono in grado di distinguere un brano prodotto nel 2008 da uno del 2002. E questo perché non esiste alcuna differenza percepibile tra un brano prodotto nel 2008 e quello prodotto nel 2002. Forse l’unica via d’uscita è il reset, il ripartire da capo. Soprattutto, dobbiamo imparare a dimenticare. Dimenticare - suggerisce il critico - è una strategia esistenziale ed emotiva cruciale per gli esseri umani”. Preso atto che l’atto del dimenticare, al pari del respirare, non è volontario, o per lo meno consapevole, quello che possiamo fare, piuttosto, è ignorare: cancellare automaticamente i feed che si accumulano nel nostro aggregatore, rifiutare di caricare l’ennesimo update, smettere di scaricare l’impossibile, deframmentare il cervello.
O magari, dovremmo imparare a gestire la nostra vita digitale senza invocare la fine della cultura tout court.
PARTE QUARTA
È venuto il momento di trarre qualche conclusione su Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato (ISBN Edizioni, 2011), il nuovo saggio di Simon Reynolds che abbiamo esaminato attraverso tre post (uno, due, tre). Come abbiamo sottolineato, il tour-de-force del critico britannico non solo richiede una lettura attenta, ma merita una discussione collettiva e articolata. L’ampiezza dei temi trattati (musica e cultura digitale), l’audacia di alcune tesi (vedi sotto) e l’approccio sempre accessibile e coinvolgente (siamo ben lontani dalla retorica stucchevole di gran parte della saggistica accademica sui new media) fanno di Retromania uno dei libri più WIRED del 2011.
Nel suo pamphlet – a tratti, un vero e proprio manifesto - Reynolds lancia critiche penetranti alla cultura digitale, critiche che, in molti casi, trascendono l'ambito puramente musicale. Solleva questioni importanti sulle implicazioni dei new media e sugli effetti sociali e culturali di internet. Il suo approccio è diretto e personale: Retromania è fortemente autobiografico. L'autore non pretende di parlare per un’intera generazione, nè utilizza concetti tanto roboanti quanto vacui ("nativi digitali", "migranti digitali" e roba del genere). E non nasconde i propri dubbi circa il potenziale salvifico e trasformativo delle nuove tecnologie – quanti ridicoli saggi che celebrano questo o quel medium/gadget/formato ci siamo dovuti sorbire negli ultimi anni? Tipo: “I videogiochi salveranno il mondo”, “l’iPad rivoluzionerà l’educazione” etc. etc. Una micidiale sbronza da determinismo tecnologico. Ma Reynolds non è un luddista e nemmeno un apocalittico. Pone domande sensate e riconosce di non avere tutte le risposte. Il che significa che Retromania non è riducibile a una presentazione di dieci minuti, a un’infografica, a un trailer, a un semplice tweet. La varietà e profondità dei temi trattati, richiedono – anzi,esigono - una lettura approfondita.
Nei capitoli finali, il critico britannico accusa i giovani e giovanissimi – cresciuti in rete su siti di social network - di aver abusato di una tecnologia straordinaria come internet. Di averla sostanzialmente sprecata. Non solo: secondo Reynolds, tutti noi, non solo i pischelli, abbiamo perso un'occasione irripetibile: con internet potevamo cambiare il mondo. Invece,
"Guarda un pò cosa come stiamo usando questo straordinario strumento della comunicazione: documentiamo la nostra vita quotidiana in modo ossessivo, chattiamo del più o del meno con i nostri amici, ci dilettiamo con forme più o meno lecite di intrattenimento digitale, prenotiamo un tavolo al ristorante, facciamo gossip e, soprattutto, ci ingozziamo di revival, ebbri di nostalgia per la cultura pop del passato, cultura pop che abbiamo accumulato e archiviato in rete e sui dischi fissi. In breve, non abbiamo inventato nulla di nuovo [...] Ci avevano promesso un futuro eroico, grandioso, ma le attività (o, meglio, 'passività') rese possibili dalle nuove tecnologie si limitano a prolungare i fasti di un impero ormai decaduto anziché consentirci di inventare il futuro."
La conclusione di Reynolds è che "Oggi non siamo in grado di immaginare il futuro se non in termini catastrofici o distopici", come conferma l'abnorme proliferazione di racconti incentrati sul tema della Fine, da La strada di Cormac McCarthy aThe Walking Dead, dal trionfo al botteghino del cinema post apocalittico ai videogiochi ambientati nel mondo del dopodomani, un mondo desolato in bilico tra il Far West e Chernobyl. No future, dunque, ma con l’approccio ironico (e passatista) di Nouvelle Vague.
La crisi del futuro rappresenta, secondo Reynolds, il problema più serio del nostro presente. L’impossibilità di immaginare alternative allo status quo e la tragica, passiva accettazione delle tesi di Francis Fukuyama secondo cui la storia è finita nel 1989 in seguito al crollo del muro di Berlino e dell'implosione del regime comunista nell’ex-Unione Sovietica, spiega perché oggi se oggi qualcuno manifesta in piazza è solo per saccheggiare un Apple Store e rubare un iPod, com’è successo a Londra la scorsa estate. Se persino la fantascienza rinuncia ad immaginare il futuro siamo davvero nei guai, conclude Reynolds. Il caso emblematico è rappresentato da William Gibson, i cui ultimi romanzi sono ambientati nel recente passato. Lo scrittore canadese ha coniato l'espressione "Fatica del futuro" per descrivere la nostra incapacità nel descrivere l’avvenire. La conclusione dell’autore di Mona Lisa Overdrive è che non esiste più il futuro con la "F" maiuscola, bensì "Un Adesso infinito, uno stato di perpetua atemporalità alimentata da una memoria prostetica collettiva". La differenza fondamentale tra Gibson e Reynolds è che l'autore di Neuromancer è affascinato dal “lungo presente”, mentre Reynolds non riesce a rassegnarsi all'idea che il futuro sia finito prima ancora di cominciare. Reynolds non ci sta: "Se la pop culture attuale è ossessionata dal proprio passato, io mi chiamo fuori. Faccio parte di una minoranza di fanatici del futuro."
Forse il futuro non è morto, ma ha indubbiamente rallentato la sua corsa, come attestano gli anni Zero, suggerisce Reynolds. Nella decade che ci siamo lasciati alle spalle, la cultura pop ha raggiunto una fase di plateau. Mentre la tecnologia si sviluppava a ritmi esponenziali, rivoluzionando intere industrie (musica, cinema, videogame, editoria), la cultura pop nel suo complesso procedeva per inerzia, evolvendosi "A ritmi tutt'altro che spettacolari, anzi, spesso appena percepibili". E, come abbiamo visto, l'innovazione tecnologica non ha necessariamente portato a un miglioramento qualitativo della musica. Al contrario, "il suono super-compresso, mp3-ready, quasi pre-degradato è diventato uno standard, ed è tutto quello che oggi circola su iPod, smartphone e autoparlanti dei computer".
Reynolds non nega che siano apparsi nuovi generi musicali. Ne cita due, in particolare: grime e dubstep. Ma si tratta comunque di mera evoluzione, non rivoluzione, pura contaminazione, non innovazione. I "nuovi" suoni non hanno ridotto l’opprimente sensazione di decelerazione: "Il 2010 non mi è parso affatto diverso dal 2009 ma nemmeno dal 2004, laddove nel passato, le differenze tra un'annata e l'altra - tra il 1967 e il 1968 o tra il 1978 e il 1979, o tra il 1991 e il 1992 - erano immense".
Non è solo una questione tecnologica. O meglio, la tecnologia rende possibili fenomeni di natura socio-culturale. Detto altrimenti, le ragioni di questa "decelerazione" e "omogeneizzazione" della cultura pop sono causati, tra le altre cose, dalla persistenza di generi e sottogeneri: "La maggior parte degli stili musicali e delle sottoculture prodotte negli anni passati sono ancora attivi. Dal goth alla drum'n'bass, dal metal al trance, dalla house all'industrial, questi generi sono presenti su tutti i menu [...]. Nulla svanisce, nulla scompare. Ma questo fenomeno finisce per soffocare il manifestarsi di nuovi fenomeni." In altre parole, non c’è più un vero ricambio, bensì il permanere di tutte le possibilità.
Conclusione: "La cultura pop attuale è attanagliata dal costante e permanente revival" e, per tanto, "la neofilia è degenerata in pura necrofilia". Personalmente, vedo in questo fenomeno un semplice cambio di paradigma. La logica lineare e sequenziale tipica dei media tradizionali (film, romanzi, teatro, la stessa musica pop) è stata sostituita da un modello rizomatico – la rete – che non ha inizio nè fine, non ha centro, ma nodi, autorialità collettive, temporalità multiple (sincrone, asincrone etc.), logiche archivistiche etc. che richiedono nuove mappe (anche cognitive, per dirla con Fredric Jameson). No Maps For These Territories, del resto, era il titolo di uno splendido documentario su William Gibson diretto da Mark Neale nel 2000 che non ha perso nulla della sua forza originaria (Reynolds direbbe che questo attesta che non è successo nulla negli ultimi dieci anni). I media in quanto tali sono stati assorbiti in quel metamedium che è internet. Prevedo che entro cinque anni, per esempio, sarà impossibile distinguere la televisione da internet, sul piano tecnico, industriale e perfino estetico. Il punto è che le trasformazioni che stiamo vivendo richiederanno anni per essere assorbite e comprese pienamente. Ed è lecito attendersi nuovi generi, stili ed espressioni culturali dalle nuove generazioni, cresciute in un ambiente cosi' dinamico, anzichè da una vecchia guardia disorientata e affascinata dal proprio passato. Siamo vittime della sindrome dello specchietto retrovisore, direbbe McLuhan: procediamo a folle velocità verso il futuro con gli occhi rivolti al passato. Ci guardiamo alle spalle perche' non riconosciamo quello che ci sta davanti. Reynolds afferma che dopo l'avvento di internet, il concetto stesso di "underground" ha perso di significato. Io tuttavia ritengo che lo scambio di informazioni in tempo reale, la globalizzazione del discorso culturale, artistico e tecnologico possa portare grandi benefici. E c'è una differenza sostanziale tra l'assenza di avanguardie e l'incapacità di vederle.
Citando Eric Harvey, collaboratore di Pitchfork, Reynolds afferma che gli anni Zero non saranno ricordati tanto per la musica che hanno prodotto quanto per la tecnologia musicale. In un certo senso, McLuhan aveva capito tutto: Il medium è il messaggio. Ovvero: l'iPod è più importante di Lady Gaga (che Reynolds liquida in una riga): "Il contenuto mediato ha ormai smesso di evolversi (si tratta di un mix di musica del passato e musica contemporanea che è 'nuova ma si rifà esplicitamente al passato' oppure modifica leggermente formule consolidate)"
Qual è dunque la colonna sonora degli anni in cui viviamo? Il sound dell'era digitale? Il (gosh) "messaggio" di internet?
"Il ‘messaggio’ non consiste tanto nella musica diffusa attraverso le nuovi rete e le nuove tecnologie, quanto nelle sensazioni che tale diffusione ha prodotto, sensazioni legate a concetti quali connessione, scelta, abbondanza, velocità. [Gli anni Zero] ci hanno regalato un trip privo frizioni, quasi istantaneo, tre differenti reti, sistemi di archiviazioni e così via. Ci troviamo agli antipodi rispetto agli anni Sessanta, il cui impeto era rivolto verso il futuro, verso l'ignoto."
Secondo Reynolds la crisi di identità della cultura pop riflette quella dell'economia mondiale. Questo disastro persistente è insieme causa ed effetto, sintomo e diagnosi di uno stato d’emergenza:
"L'economia mondiale è stata affossata da derivati e debiti; la musica ha perso slancio via di derivazioni e indebitamenti"
Il sistematico processo di impoverimento della cultura pop è stato causato, tra le altre cose, dall'assorbimento delle dinamiche tipiche della moda all'interno dell'industria musicale. "La moda rappresenta la connessione tra il tardo capitalismo e la cultura. È il luogo in cui si interfacciano. La musica pop ha gradualmente incorporato il metabolismo artificialmente accelerato della moda, i suoi cicli rapidi di obsolescenza pianificata".
Non a caso, "nella moda, il futuro non può essere inventato in modo sufficientemente rapido, mentre il passato prossimo si accumula, creando pile di merci simbolicamente ammortizzate [...] La moda - un meccanismo finalizzato alla creazione (e distruzione) di capitale culturale in tempi rapidissimi - oggi permea qualunque cosa".
La sinergia tra moda e tecnologia - evidente nel caso di fenomeni di culto come Apple - ha prodotto danni devastanti sulla pop culture e sulla musica in particolare, conclude Reynolds. Inoltre, è ingenuo attendersi una rivoluzione dalle giovani generazioni, visto che si trovano perfettamente a loro agio in questo purgatorio digitale. Citando ancora Gibson, Reynolds scrive che "Ai giovani il futuro con la 'F' maiuscola non interessa minimamente. Non ci pensano proprio. Il desiderio di fuggire dall’hic-et-nunc, dal quotidiano suburbano, è rimasto, ma viene soddisfatto attraverso il fantasy (si consideri l'enorme popolarità di romanzi e film incentrati sul tema della magia, dei vampiri, del supernaturale) o attraverso la tecnologia digitale."
Come dire, oggi l'unica alternativa possible alternativa è tra Twilight o Harry Potter. Benvenuti nell'era dell'iper-stasi.
"Nell'era digitale, la vita quotidiana procedeva a ritmo lento (dovevamo aspettare il telegiornale della sera per sapere cosa succedeva, attendere con pazienza le nuove uscite musicali), ma la cultura nel suo complesso si muoveva a ritmi travolgenti. Nel presente digitale, la vita quotidiana è caratterizzata dall'iper-accelerazione e dalla semi-istantaneità (il download, il refresh costante delle pagine web, lo scanning impaziente del testo sugli schermi), ma a livello macro-culturale la situazione pare statica, in fase di stallo. Ci troviamo in una situazione paradossale di accelerazione e arresto".
E i lettori di WIRED che ne pensano? Ci troviamo davvero in una situazione paradossale di iper-stasi, arresto culturale e pseudo-accelerazione?
Matteo Bittanti
Agosto 2011
PS
Caldamente consigliato: l'analisi di Gianni Sibilla su RockOl.it. Estratto:
"L’idea che mi sono fatto leggendo questo libro è che Reynolds ha fatto un bellissimo elenco di fenomeni, ma non ha centrato la questione. Il problema vero non è la tendenza “retro”, come sostiene Reynolds. Il problema vero è che per la musica nessuno che ha fatto quello che un David Foster Wallace ha fatto per la letteratura: ovvero prendere generi preesistenti – il reportage, la satira, la narrativa nel suo caso – e reinventarli ad un livello talmente alto da renderli una cosa nuova."