Perché la sinistra non impara a usare il meme? Il gamer come soggetto politico
Matteo Bittanti
Università IULM
16 dicembre 2022
TRASCRIZIONE
Buongiorno a tutti, il mio nome è Matteo Bittanti e sono Professore Associato in Media Studies all’Università IULM di Milano. In questa sintetica presentazione vorrei discutere alcuni aspetti del volume Perché la sinistra non impara a usare il meme? Adorno, videogiochi e Stranger Things scritto da Mike Watson e pubblicato da Meltemi nel dicembre 2022 nella collana C-Cube diretta da Nello Barile che, full disclosure, insegna nel medesimo ateneo per il quale presto attualmente servizio.
Questa presentazione fa parte di un progetto di ricerca sulla relazione tra politica e videogiochi che include, tra le altre cose, i due volumi Game Over. Critica della ragione videoludica e Reset. Politica e videogiochi, pubblicati da Mimesis Edizioni.
Prima di procedere, è opportuno fornire alcune informazioni contestuali sull’autore.
Nato in Inghilterra nel 1979, Michael Robert Watson è uno scrittore, curatore e critico d’arte che studia la relazione tra cultura, new media e politica. Watson, che attualmente risiede in Finlandia, ha vissuto a Roma dal 2008 al 2018. Ha ottenuto un dottorato in filosofia presso il Goldsmith College di Londra e collabora regolarmente con pubblicazioni come ArtReview, Artforum, Jacobin e Radical Philosophy. È l’autore di tre monografie: The Memeing of Mark Fisher: How the Frankfurt School Foresaw Capitalist Realism and What to do About it (Zer0 Books, 2021), Can The Left Learn to Meme? (Zer0 Books, 2019) e Toward a Conceptual Militancy (Zer0 Books, 2016). Il primo e il terzo sono inediti in Italia.
Il libro pubblicato da Meltemi tenta di rispondere alla domanda chiave posta dal titolo, ovvero Perché la sinistra non impara a usare il meme?, traducibile in questi termini: Perché la sinistra è generalmente tecnofobica o tecnocratica, cioè incapace di cogliere, tanto meno sfruttare, le caratteristiche positive della cultura digitale, internet in primis? Ora, a differenza di chi vede nella rete, nelle piattaforme e nella pop culture che circola in rete - sotto forma di meme, per esempio - l’espressione della destra autoritaria o libertaria, Watson ritiene che il potenziale politico di queste forme di comunicazione sia enorme anche per la sinistra in quanto tale, o per lo meno di quel che ne resta, e non soltanto per quelle degenerazioni neoliberiste che hanno trovato nel Partito Democratico americano o italiano delle espressioni paradigmatiche.
In questa sede non vorrei tanto recensire il libro né esprimere un giudizio sull’efficacia argomentativa delle tesi formulate da Watson, quanto illustrare i punti chiave dell’ultimo dei sette capitoli brevi che compongono l’opera, interamente dedicato alla cultura videoludica, intitolato “Le lezioni della Lega”, dove per Lega si riferisce a League of Legends e non al partito di estrema destra italiano fondato da Umberto Bossi. In questo capitolo, Watson descrive l’ascesa dei MOBA, acronimo di Massive Online Battle Arena, come DOTA (Defence of the Ancients), DOTA II, League of Legends e Vainglory. Aldilà delle differenze cosmetiche e formali, questi prodotti presentano caratteristiche e meccaniche simili: si tratta infatti di giochi free-to-play che mettono di fronte due squadre di cinque giocatori impegnate a distruggere la base della squadra avversaria, alla quale si accede attraverso tre canali principali. Le partite possono essere giocate contro nemici controllati dal computer (“bot”) oppure contro giocatori reali estratti da un pool della propria regione geografica, mentre i membri della propria squadra sono selezionati da un pool di giocatori definiti “amici”, il che conferisce alle sfide una dimensione “sociale”. Lungo il percorso verso la base nemica è necessario distruggere una serie di torri, mentre i soldati avversari (“minion”) controllati dal computer e i mostri neutrali possono essere uccisi per ottenere risorse da investire per l’acquisto di armi, armature, incantesimi e pozioni curative. Questo modello, che ha debuttato in una versione modificata di Warcraft III: Reign of Chaos nel 2002, ha conosciuto una grande popolarità nell’ultimo decennio. League of Legends (Riot Games, 2009), per esempio, coinvolge oltre 100 milioni di giocatori al mese, scrive Watson. Parallelamente, i servizi di streaming online come Twitch e il canale dedicato ai giochi di YouTube attraggono milioni di spettatori che seguono le dirette dei giocatori che partecipano ai MOBA e ad altri giochi commentando in chat i loro exploit. Grazie a un’ampia rete di giocatori che interagiscono a livello globale, la possibilità di scegliere tra una serie di avatar di partecipare a sfide con appassionati del continente o del mondo consente di promuovere una forma di comunità. In altre parole, il MOBA, un genere videoludico relativamente nuovo, ha contribuito a creare una specifica classe sociale, il gamer, che è al tempo stesso una soggettività politica. La tesi di Watson, per quanto interessante, non è di per sé originale: è infatti condivisa pressoché da tutti gli autori che si sono cimentati sulla relazione tra videogioco e politica. Inoltre, non coincide necessariamente con l’emergenza del gioco competitivo online o eSports.
Semmai, l’aspetto più significativo del contributo di Watson è l’apporto della Scuola di Francoforte, centrale anche nel libro successivo, The Memeing of Mark Fisher (2021). Lo studioso britannico ci ricorda che tanto Karl Marx quanto Theodor Adorno, le cui teorie fanno da leitmotiv alla sua argomentazione, sostenevano che il capitalismo fornisce allo stesso tempo un possibile impulso al cambiamento e un quadro nel quale tale cambiamento può avere luogo. Ciò che il capitalismo invece non fornisce sono gli strumenti per ottenere una reale emancipazione. Del resto, come ha affermato la poeta afroamericana Audre Lorde, “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”.
In questo senso, la pop culture sviluppata in un contesto capitalistico può sì alludere alla rivoluzione, senza tuttavia renderla effettivamente praticabile: in questo senso, la rivoluzione è un semplice genere di consumo, una forma di intrattenimento, una merce da impacchettare e vendere a un determinato tipo di pubblico che ama sentirsi “contro” o perfino “trasgressivo” quando in realtà è perfettamente integrato nel sistema. Sullo stesso tema, si veda il capitolo primo del volume Capitalismo e Candy Crush (Nero, 2017), nel quale l’autore Alfie Bown muove una critica efficace ai presunti meriti della teoria critica in quanto forma di consumo. Per restare a Watson, l’autore pone al lettore una domanda provocatoria: Se è vero che una comunità può nascere solo a partire da una coscienza di classe che il capitale tenta di reprimere in modo sistematico, è plausibile vedere nei nuovi media - videogiochi e giochi video inclusi - la possibilità di creare comunità alternative, forme di coscienza comunitarie che si relazionano al capitalismo in forma oppositiva?
La risposta di Watson merita una disamina. In primo luogo, per l’autore britannico questa ipotesi pare sconfessata dalla realtà empirica. La cultura videoludica e, più in generale, la cultura online, sono infatti segnate da forme estreme di bigottismo, razzismo, misoginia e omofobia. L’idea che il virtuale rappresenti un territorio vergine, scevro da ogni pregiudizio, non è semplicemente ingenuo sul piano concettuale, ma sistematicamente sconfessato dai fatti. A questo proposito, Watson cita il saggio seminale di Lisa Nakamura del 2012 pubblicato su “ADA. A Journal of Gender, New Media and Technology”, Queer female of color: The highest difficulty setting there is? Gaming rhetoric as gender capital? in cui la studiosa americana sottolinea che
tanto più il capitale videoludico si identifica con la mascolinità bianca, tanto più aspra sarà la battaglia per la sua distribuzione, il suo possesso e la sua circolazione. Man mano che la cultura videoludica diventa più fortemente capitalizzata sia economicamente che simbolicamente, diventa più importante per le donne conquistare posizioni di potere come critiche, creatrici e giocatrici, e più probabile che ciò venga negato.
La diagnosi di Nakamura si è dimostrata profetica alla luce degli eventi di Gamergate del 2014, che hanno coinciso con la confluenza tra la comunità gamer americana e l’Alt-Right e, successivamente, alla vittoria alle elezioni presidenziali del presidente-meme Donald J. Trump, al tentativo di insurrezione violenta del 6 gennaio 2021 e alla violenza politica dei giorni nostri.
Dopo aver discusso il fenomeno della pornografia slash di Overwatch, Watson conclude che il bigottismo, la misoginia e l’omofobia dei videogiochi non devono sorprenderci. I media tendono infatti a imporre valori dominanti, specie per quanto riguarda le aspettative legate alla classe, alla razza e al genere. Allo stesso tempo, Watson si domanda se sia possibile considerare i new media - videogiochi e giochi video inclusi - come forze positive e negative allo stesso tempo.
La risposta di Watson prende avvio da un passaggio dell’introduzione del libro più noto di Adorno e Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, pubblicato nel 1944, nel quale i due autori affermano che “La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”.
Detto altrimenti, Adorno e Horkheimer vedono nel capitalismo una forza che produce effetti contrastanti, se non contraddittori: è come una mano che se da un lato elargisce qualcosa, dall’altro la toglie. Stimola l’ingegno umano e, nel contempo, lo sopprime. Si noti che Adorno e Horkheimer, insieme al resto della Scuola di Francoforte, avevano visto fallire in modo epico e disastroso le rivoluzioni e le relazioni sociali. Gli intellettuali tedeschi non considerano solo il Nazismo un’enorme minaccia per il mondo: essi trovano parimenti deleterio il Capitalismo così come si è affermato negli Stati Uniti. Sotto molti aspetti, capitalismo e Nazismo sono fenomeni convergenti. Non deve dunque sorprendere dunque le forti resistenze di Adorno per il capitalismo, che si traduce in una forma di negatività radicale che si estende anche ai mass media e all’intrattenimento in generale prodotto in tale contesto. I mass media “istupidiscono” le persone pur avendo, almeno sulla carta, un potenziale didattico e formativo. Inoltre, essi forniscono alle classi inferiori o svantaggiate un miglioramento del tenore di vita del tutto illusorio: l’upgrade è superficiale e simbolico, perché lascia immutate le condizioni di sfruttamento sottese al capitalismo. I mass media non sono altro che l’olio che lubrifica gli ingranaggi o, meglio, quei circenses che rendono tollerabile l’ingiustizia di fondo. Per questo motivo, egli sviluppa una teoria dell’arte che, a differenza di Benjamin, ignora o rigetta media di massa quali il cinema o la radio. Per Adorno, persino gli aspetti in apparenza più positivi del capitalismo non sono stati in grado di ovviare a problemi sistemici e strutturali, anzi, hanno reso la massa più facilmente influenzabile e manipolabile dal “governo dei pochi”, per dirla con Edward Bernays: gli esperti di propaganda ovvero pubbliche relazioni assoldati dai governi e dalle corporation per spargere disinformazione, distrazione e inazione. Come osserva Watson, “L’ingiustizia sociale è mantenuta e ratificata da un’élite. Siamo consapevoli dell’impossibilità di rovesciare l’élite, eppure dobbiamo andare avanti, quindi possiamo sperare, ma non troppo, perché la speranza rischia di smorzare il nostro cinismo, e il cinismo ci aiuta a cogliere l’esistenza dei margini che ci limitano.” È questa la ragione per cui le nuove generazioni trovano in Adorno un interlocutore pregnante perché, scrive Watson, “non avendo avuto nessun altro tipo di speranza rivoluzionaria o trascendentale a cui aggrapparsi” gli scritti del teorico tedesco rappresentano uno dei pochi salvagenti nell’oceano del neoliberismo promosso senza ritegno dagli squali che nuotano a vista nelle istituzioni universitarie che hanno smesso da tempo di formulare un’autentica critica sociale, culturale ed economica e che oggi difendono lo status quo perché conveniente.
Parimenti, i videogiochi offrono una apparente libertà di espressione e creatività, ma si tratta di un’espressione rigidamente codificata all’interno del sistema capitalistico: ripetitiva, infruttuosa, e dunque controproducente. Tuttavia, Watson osserva che per quanto le critiche ai videogiochi - un medium che ratifica il bigottismo sociale dei gamer - sono condivisibili, al tempo stesso non ci aiutano a “comprendere il potenziale di trasformazione reso possibile dai progressi della tecnologia che hanno reso superflua gran parte della teoria dei media a noi cara."
Watson infatti ritiene che, per quanto lucida, l’esegesi sui media della Scuola di Francoforte non consideri le specifiche idiosincrasie di un mezzo di comunicazione, il videogioco, introdotto negli anni Settanta, ovvero ben dopo le formulazioni dei filosofi teutonici. In ogni caso, il critico britannico ci sollecita a prestare attenzione a un dettaglio cruciale della critica di Adorno: i media istupidiscono le persone, ma almeno in potenza, le scaltriscono, ovvero le rendono più intelligenti. Questo apparente paradosso genera una serie di quesiti:
Quali sono allora le altre contraddizioni intrinseche dei media? E in particolare dei nuovi media? Potrebbero rendere le persone più isolate, ma anche più comunitarie? E dovremmo forse ignorare i benefici di persone più intelligenti e più comunitarie, nella nostra predilezione negativa nello scorgere solo la stupidità e gli effetti di isolamento?
A questo proposito, Watson sottolinea il fatto che i videogiochi non sono fruiti in completo isolamento e in totale solitudine, ma sono spesso consumati in forma collettiva e comunitaria. In molti giochi, gli utenti formano una squadra, una gilda, una compagine e per ottenere risultati efficaci, devono cooperare, lavorare insieme, prendere coscienza di essere una collettività, anziché atomi isolati. Secondo Watson, questo aspetto, insieme al maggiore potenziale di scelta all’interno dei nuovi media, andrebbe celebrato e valorizzato in modo che gli aspetti positivi del videogioco e dei social media possano essere utilizzati come sfida ai fenomeni sociali negativi.
Anche questo tema, in realtà, non è nuovo e presenta più di un limite. Per esempio, ho già fatto notare che dopo aver trascorso intere settimane a giocare a World of Warcraft insieme ai membri della sua gilda - una pratica ludica altamente partecipativa e molto impegnativa - il terrorista norvegese Anders Breivik ha massacrato dozzine di giovani progressisti. L’idea che la fruizione collettiva del videogioco possa incentivare una consapevolezza comunitaria e stimolare un pensiero di classe semplicemente perché il raggiungimento di determinati obiettivi ludici richiede una forma di collaborazione è fallace come l’idea che la violenza della simulazione videoludica possa da sola trasformare un gamer in un omicida seriale: le due ipotesi sono parimenti sconfessate dai fatti e dagli studi scientifici. Per quanto il caso del terrorista norvegese sia estremo e fortunatamente raro, non va dimenticato che da anni il capitalismo ha cooptato la ludologica attraverso esercizi di team building nei quali i dipendenti di ogni gerarchia partecipano a “giochi”, sfide e competizioni per “rafforzare” la collaborazione, la coesione intra-murale e dunque la fedeltà all’azienda. Queste tattiche, promosse e celebrate dall’evangelista della ludicizzazione Jane McGonigal hanno ben poco di critico, tanto meno di rivoluzionario, e sono perfettamente compatibili con gli obiettivi del capitalismo. Si tratta, infatti, di forme di marketing applicato al cosiddetto “capitale umano”.
Lo stesso Watson cita i limiti del potenziale edificante dell’attività ludica, descrivendo i noti tentativi dell’esercito americano di reclutare i giovani attraverso l’escamotage di America’s Army che per due decenni ha rappresentato il volto “ludico”, “disimpegnato” e “divertente” della cultura militare. Questo videogioco fruibile gratuitamente esalta il cameratismo, dipingendo la leva come una sorta di gita di piacere intrapresa deliberatamente con i propri compagni. Il potenziale del gioco di squadra nel promuovere ideali comunitari è chiaramente intenzionale da parte dei produttori, anche se gli obiettivi sono ben lontani dai valori socialisti. Il giocatore è sollecitato a imbracciare le armi in senso letterale contro un futuro nemico: Afghanistan, Siria o Iran. La distanza che separa la creazione del proprio avatar sullo schermo e il cosplay in tuta mimetica nei deserti del Medio Oriente è tragicamente ridotta.
In secondo luogo, è impossibile dimenticare che la cultura videoludica rappresenta uno strumento privilegiato per dirottare orde di gamer verso l’estrema destra, come ha fatto con successo Steve Bannon, ex-stratega della Casa Bianca e presidente esecutivo della pubblicazione di estrema destra “Breitbart News”. Watson ci ricorda che Bannon è stato per quattro anni amministratore delegato di Affinity Media (nota in precedenza come Internet Gaming Entertainment), una società che aveva monetizzato il meccanismo del gold farming tipico dei videogiochi in rete. In breve, sfruttava i giocatori situati nel Sud Est Asiatico di World of Warcraft per “coltivare” tesori, bottini e ricompense nel gioco attraverso il gameplay, che venivano poi venduti a giocatori occidentali per finalità di lucro. In qualità di azionista di maggioranza di Affinity Media, Bannon aveva convinto Goldman Sachs - la società per la quale lavorava in precedenza - a investire un’ingente quantità di denaro, ma le sue fortune sono finite a causa di una causa legale di alto profilo intentata da un giocatore scontento, Antonio Hernandez, nel maggio 2007. Hernandez lamentava che l’esperienza ludica fosse stata rovinata dagli speculatori interessati esclusivamente all’aspetto economico del gioco, permettendo così a ricchi “noob” - giocatori alle prime armi - di rovinare il gameplay. La causa intentata da Hernandez era accompagnata da un calo delle entrate per Affinity Media, dato che Blizzard, l’azienda che gestiva World of Warcraft, dal 2006 aveva dato un giro di vite al farming e alla vendita dei bottini rinvenuti nel gioco, chiudendo gli account dei gold farmers. Come abbiamo spiegato sia in Game over e in Reset, l’apparente fallimento economico fornisce in realtà a Bannon lo spunto per sfruttare in chiave politica l’enorme esercito di gamer online, formato da “ragazzi, maschi bianchi privi di radici”, il cui intenso risentimento sociale poteva essere sfruttato dall’estrema destra. La disaffezione e l’apatia politica dei gamer potevano essere cioè trasformati in una nuova forma di attivismo politico grazie all’evangelizzazione di personaggi carismatici come Milo Yiannopoulos, agitatore e moralista di “Breitbart News” nonché noto anti-femminista e misogino. Il troll britannico ha svolto il ruolo di catalizzatore del movimento Gamergate, che ha promosso il disprezzo per le donne nell'industria del gioco, anche se come fanno notare gli autori di Game Over, la campagna era fortemente decentralizzata e meno gerarchica di come l’abbiano descritta i media mainstream (e lo stesso Watson). La studiosa Torill Eliva Mortensen, in particolare, descrive le attività moleste dei gamer usando l’analogia dello sciame e dell’hooligan.
Watson si domanda se esista una relazione tra l’immaginario videoludico e la forte presa ideologica dell’estrema destra sui gamer. La risposta, affermativa, è stata fornita in Game Over e Reset attraverso una serie di studi di caso. Esiste, cioè, una sostanziale convergenza, se non equivalenza, tra i valori promossi dal tipico videogioco mainstream e la soggettività gamer. Non si tratta tanto di concepire il videogioco come strumento per fare carriera nel mondo reale, apprendere “skills” che possono essere convertite “per fare soldi”, una tesi che accomuna tanto le posizioni della falsa progressista McGonigal quanto le tesi dello psicologo beniamino dell’Alt-Right Jordan Peterson, discusso da Watson. Secondo il carismatico scrittore canadese, il potenziale positivo del gioco consiste nell’offrire sfide all’interno di sistemi di regole che aiutano il soggetto a sviluppare delle specifiche competenze trasferibili nel cosiddetto “mondo reale”. Come osserva Watson,
questa mentalità da consulente di carriera non coglie il potenziale del gioco libero e aperto nello sviluppo di nuovi percorsi di crescita personale e di interazione sociale. Inoltre, fraintende le ricompense fondamentali del gioco, che non derivano necessariamente dall’adempimento di compiti e obiettivi inscritti in un quadro di regole che imitano le logiche legislative del mondo reale. Sì, i giochi hanno delle regole, anche se raramente si gioca per affinare la propria aderenza ai sistemi di regole. In effetti, ciò sarebbe del tutto contrario alla logica del ‘gioco’, che richiede una perdita di coscienza degli imperativi e delle restrizioni.
In altre parole, Watson ritiene che l’essenza del giocare consiste nell’assumere un atteggiamento scettico nei confronti di eccessive restrizioni, regole e balzelli. Giocare, per dirla con Alexander Galloway, è anche - soprattutto - un controgiocare. Riprendendo e parafrasando Adorno, lo studioso britannico afferma che gli uomini non possono usare il videogioco per diventare carne da macello del capitalismo. L’unica alternativa alla “razionalità” neoliberista è l’espressione artistica genuina, che può trovare una sua declinazione anche attraverso il gioco libro. Il videogioco non può essere arte se è inserito in un circuito commerciale: è un’arte mercificata non è arte. La funzione dell’arte è far emergere il caos e la dissonanza, ha scritto Adorno. Deve cioè disarmare il soggetto e rendere possibile il superamento del falso confine tra la cultura umana basata sulle regole e gli auspici caotici e spesso letali della natura. La vera arte non è rassicurante né conciliante: il suo potere consiste nel “far apparire tutto sbagliato, in modo che ci si renda conto della fallacia delle condizioni sociali sottese a ogni situazione”. Non c’è alcun ordine da ripristinare a livello di natura, come afferma Peterson: è un esempio dell’arroganza umana. Queste riflessioni, che in apparenza possono sembrare lontane dal gioco, sono per Watson il tema centrale della discussione sulla filosofia e sulla pratica ludica.
La vera domanda che informa questo capitolo e, più in generale, la riflessione di Watson nel libro Perché la sinistra non impara a usare il meme? è la seguente: che tipo di giocatore voglio essere? Un soggetto che si attiene rigidamente alle regole a discapito dell’attività del giocare? Oppure un soggetto capace di inventare nuovi giochi a partire da quelli esistenti attraverso un processo di reinterpretazione creativa? Gli esempi si sprecano, dal modding al machinima, dalla fotoludica al gameplay emergente. Ma Watson cita anche i guastafeste degli scacchi che si rifiutano di giocare e gettano la scacchiera per aria quando si rendono conto che le regole predefinite li penalizzano ingiustamente. Talvolta, il modo migliore per rompere l’incantesimo (maledizione) del ludico è rifiutarsi di giocare tout court.
La manipolazione dei gamer da parte di Bannon attesta il desiderio dell’estrema destra di convogliare l’energia dei giovani giocatori verso forme politiche corrosive. Per Watson è indispensabile che la sinistra argini queste iniziative attraverso un’efficace comprensione del potenziale ludico a livello sociale e culturale.
Riferimenti bibliografici
Adorno T., Horkheimer M., La dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1968 [1944].
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Bittanti M. (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis Edizioni, Milano 2023.
Bittanti M. (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis Edizioni, Milano 2020.
Bown A., Capitalismo e Candy Crush, NERO, Roma 2019.
Galloway A.R., Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica, Luca Sossella Editore, Milano, 2022.
McGonigal J., La realtà in gioco, Apogeo, Milano 2011.
Nakamura L., Queer Female of Color: The Highest Difficulty Setting There Is? Gaming Rhetoric as Gender Capital, in “ADA. A Journal of Gender, New Media and Technology”, vol. 1, 2012. URL
Peterson J., 12 regole per la vita. Un antidoto al caos, My Life, Milano 2021.
Watson M., Perché la sinistra non impara a usare il meme? Adorno, videogiochi e Stranger Things, Meltemi, Roma 2022.
Watson M.,The Memeing of Mark Fisher: How the Frankfurt School Foresaw Capitalist Realism and What to do About it, Zer0 Books, Winchester, England 2021.
Watson M., Toward a Conceptual Militancy, Winchester, England 2016.
Ludografia
DOTA (Defence of the Ancients), Eul, IceFrog, Steve Feak, mod, 2003
DOTA II, Valve, 2013
League of Legends, Riot Games, 2009.
Overwatch, Blizzard Entertainment, 2016.
Vainglory, Super Evil Megacorp, 2014.
Warcraft III: Reign of Chaos Blizzard Entertainment, 2002.
World of Warcraft, Blizzard Entertainment, 2004.
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