Alexandra Carmichael (left) and Kevin Kelly (right), Quantified Self Meet-up, The Tech Museum, 06222010, Photo Credit: Matteo Bittanti
"Ci vuole un fisico bestiale
il mondo è un grande ospedale
e siamo tutti un po' malati
ma siamo anche un po' dottori"
(Luca Carboni, "Ci vuole un fisico bestiale", 1991)
“Quantifico dunque sono”. Più che uno slogan, un mantra. È una serata d'estate a San José, capitale della Silicon Valley o così gli piace credere. Mi trovo al Tech Museum, dove ho svolto attività curatoriali per due anni. Attorno a me, un centinaio di individui, per lo più caucasici e asiatici – non scorgo nessun afro-americano – equidistribuiti tra uomini e donne, discutono animatamente delle loro passioni & ossessioni. I presenti in sala sono per lo più statunitensi (70%) a cui si aggiungono gli onnipresenti europei (25%) e uno sparuto gruppo di australiani (5%) di età compresa tra i venticinque e i sessant’anni. I Ph.d si sprecano, come evinco dai biglietti da visita che colleziono, religiosamente, durante le numerose fasi di networking che punteggiano la serata.
Come spesso avviene nella Valley, il concentrato di intelligenza in spazi relativamente ridotti è altissimo, quasi preoccupante. Cosa ci fanno esperti di computer science, medicina, fitness & wellness, psicologia e matematica in questo edificio color arancio-porpora che occupa un intero distretto downtown SimCity? Presto detto. La scusa e' il quattordicesimo incontro – pardon, meet-up – di un gruppo noto come Quantified Self, traducibile letteralmente come “quantificazione del sé”. Le regole di questo gioco sono semplicissime: si tratta di usare i più svariati dispositivi tecnologici per misurare e registrare le attività quotidiane, dalle più triviali alle più importanti. C'è chi calcola il numero di calorie consumate, chi gli email ricevuti/spediti. C'è chi fa entrambe le cose, e molte altre. Questa pratica di registrazione & annotazione è nota come personal tracking, espressione difficile da tradurre in italiano, che suona come “registrazione delle proprie tracce”.
Da qualche anno – e precisamente dal 2007 – un team di digerati, hackers, scienziati e geeks della Bay Area capitanati da due leggende viventi come Kevin Kelly e Gary Wolf, con la collaborazione dell'eclettica Alexandra Carmichael, hanno dato vita a un fenomeno che, pur essendo relativamente underground, esercita un’influenza spropositata nella Valley e nelle valli tecnologiche sparse per il mondo, Australia in primis. Un fenomeno che è insieme un modus operandi, una filosofia, un culto. Un’altra colonna portante è la leggendaria Esther Dyson, catalizzatrice di numerose start-up che hanno cambiato la rete. Sul palco c’è anche la rockstar Paul Saffo, direttore dell’Institute for the Future di Palo Alto. Insomma, una buona fetta dell'intelligentia locale. Il manifesto del movimento - che è al tempo stesso la sua narrazione più compiuta ed articolata - è un articolo di Gary Wolf pubblicato sul magazine del New York Times il 26 aprile 2010, "The Data Driven Life" ] nonché un numero monografico di WIRED, che potete leggere qui.
Perché si diventa self-tracker? Le ragioni sono numerose. Nella maggior parte dei casi, la registrazione dei propri atti è motivata dal desiderio di modificare le proprie abitudini, riducendole o incrementandole a seconda delle esigenze. C'è chi tenta di limitare il consumo di caffeina. Chi incrementare la lettura. E c'è chi desidera entrambe le cose. E chi molto di piu', come i followers di Ryan Case e Nicholas Feltron, autori dell'ormai storico sito di online tracking Daytum. I report annuali del precursore Feltron rappresentano il non-plus ultra dei tracker.
Un'immagine tratta dal Feltron Report 2009 (link)
La premessa fondamentale di questa pratica è che l'analisi attenta del comportamento può rivelare aspetti della personalità che ignoriamo o che rifiutiamo, magari inconsciamente. Con buona pace di Cartesio e degli illuministi, è ormai accettato che gli esseri umani non agiscono in modo razionale o, per lo meno, non sempre. La psicoanalisi ci insegna infatti che le nostre azioni sono spesso motivate da fattori irrazionali e imprevedibili - un'osservazione ha fatto la fortuna di Dan Ariely, autore del best-seller Prevedibilmente irrazionale (2008). L'irrazionalità di fondo spiega perché il comportamento umano sia, sotto molti aspetti, auto-distruttivo. Il consumo di tabacco e l'assunzione di cibi particolarmente grassi, per esempio, confermano le intuizioni di Sigmund Freud secondo cui il "principio letale" (o Thanatos) è influente quanto quello "vitale" (Eros).
Ed è altrettanto noto che modificare un'abitudine, per quanto dannosa, è tutt'altro che semplice. Sapere che esiste una relazione causale - e non semplicemente correlativa - tra sigarette e cancro ai polmoni non basta a farci smettere di fumare. D'altra parte, un'espressione come "fumo" è astratta e generica: chi pratica il personal tracking ritiene che conoscere il numero esatto di sigarette consumate in un determinato lasso di tempo (giorno/settimana/mese) possa innescare una reale trasformazione comportamentale. Da qui la necessità di registrare in modo preciso e puntuale fattori quali frequenza, quantità, tipologia di consumo e così via. I numeri non mentono. I numeri sono brutali. Se ancora non fosse chiaro, il personal tracking è un insieme di tecniche per sviluppare un livello di consapevolezza superiore. "Prima di tutto, i dati": la raccolta delle informazioni costituisce il primo passo verso una reale trasformazione comportamentale. Per rendere trasparente ciò che appare opaco occorre decostruire un'intera giornata, concepirla come una serie di momenti discreti - dunque quantificabili - anziché come un flusso continuo. Solo nel momento in cui mi rendo conto che ho bevuto la bellezza di 31 espressi in una settimana (media giornaliera: 4.42), posso tentare di ridurre il consumo. E ogni riduzione è graduale: come confermano innumerevoli studi condotti negli ultimi vent'anni, interrompendo drasticamente il consumo di una sostanza - dalla caffeina alla cocaina - il rischio di ricominciare ad assumerla in dosi eguali, se non maggiori, è praticamente certo.
A questo punto vi starete chiedendo: dov'è la novità? Il fenomeno finora descritto è tutt'altro che nuovo. Weight Watchers ha introdotto strategie simili - il famigerato diet diary - decadi fa. L'obiezione è legittima e richiede almeno tre precisazioni. La prima è che il personal tracking trascende il semplice monitoraggio alimentare. L’imperativo categorico del tracker è quantificare ogni singola azione - dalle ore di sonno al numero di prestazioni sessuali, dal numero di miglia percorse a livello settimanali al numero di articoli scritti in un anno – al fine di operare una trasformazione significativa. Detto altrimenti, il tracker è un moderno samurai. Come il saburau del Giappone pre-industriale, il tracker ritiene il senso della vita consista nello sviluppo e nel perfezionalmento del proprio talento, qualunque esso sia. Ovvero: il miglioramento costante è il vero driver dell'esistenza.
La seconda precisazione, non meno importante, è che la misurazione è facilitata - e in certi casi, resa possibile - dalla tecnologia. Nell'ultimo lustro si sono moltiplicati i dispositivi che consentono di misurare le più differenti azioni che eseguiamo nel corso di una giornata, dalle ore di sonno alle calorie/proteine/grassi consumati, dalle miglia percorse (camminando o correndo) alla spesa quotidiana. Tutti questi apparecchi prevedono, nella maggior parte dei casi, una controparte online - un sito che aggrega i dati dei singoli tracker, consentendo agli utenti di renderli pubblici e condividerli con altri membri della comunità o meno. Siamo diventati tutti cyborg: il nostro corpo è stato potenziato da aggeggi che registrano ogni nostro movimento.
La terza precisazione - fondamentale - riguarda la percezione stessa che la quantificazione del comportamento umano risponda ad esigenze di razionalizzazione di stampo tipicamente moderno e industriale. Detto altrimenti: con l'avvento del taylorismo e la sua applicazione fordista nei primi decenni del ventesimo secolo, si è affermata una logica statistica, orientata alla massimizzazione del tempo, che non è affatto scomparsa nell'era postmoderna, ha semmai mutato semplicemente forma. Per comprendere questa ossessione per l'efficienza e per la quantificazione del reale può essere utile citare un passaggio dell'ultimo libro di Nicholas Carr, The Shallows. What the Internet is Doing to Our Brains (2010). Nel paragrafo sottostante, tratto dall'ottavo capitolo, "The Church of Google", Carr descrive l'ideologia di Google, ma le sue osservazioni si applicano perfettamente anche alla filosofia/prassi del personal tracking:
"Le tercniche sviluppate da Taylor per misurare ed ottimizzare la produzione sonon tuttora operative e restano uno degli assunti fondamentali dell'industria manifatturiera. E oggi, grazie all'influenza sempre maggiore che gli ingegneri e i programmatori esercitano sulla nostra vita intellettuale e sociale, l'etica di Taylor si sta imponendo anche a livello cognitivo. Internet è un dispositivo creato per la raccolta automatica, trasmissione e manipolazione efficiente delle informazioni. Legioni di programmatori competono tra loro per trovare "il modo migliore" - l'algoritmo perfetto - per simulare quelle operazioni intellettuali che abbiamo definito "lavoro d'intelligenza". Il quartier generale di Google - il Googleplex - è la chiesa di Internet e la religione praticata è il Taylorismo. L'azienda, afferma il CEO Eric Schmidt, è "fondata sulla scienza della misurazione". E ambisce "a sistematizzare ogni cosa". "E' l'interesse per i dati a motivare ogni nostra azione - dice Merissa Meyer, Google executive - vogliamo quantificare ogni aspetto della nostra esistenza perché viviamo in un mondo di numeri" (Nicholas Carr, 2010:150, traduzione libera)
L'equivalente cinematografico di questa ossessione per la quantificazione e' la sequenza iniziale di Stranger than Fiction (Marc Forster, 2006), realizzata da MK12):
E nel suo articolo-manifesto, Wolf precisa che i fattori che stanno radicalmente trasformando il personal tracking sono tre: le dimensioni e il costo dei sensori/chip usati per registrare le informazioni in modo automatico e "invisibile" sono crollati, il che ha reso possibile a) una produzione di massa a costi irrisori e b) la loro integrazione a dispositivi multi-uso (come gli smartphone - si pensi agli usi previsti/inattesi dell'accelerometro). In secondo luogo, l'avvento dei social media ha normalizzato la pratica di condividere informazioni che un tempo avremmo definito "private" e "personali" con perfetti sconosciuti. In terzo luogo - quasi un corollario - l'emergere della "cloud" ha consentito a scienziati e ricercatori di entrare in contatto con una mole di dati incredibile e di cominciare a mappare la cosiddetta "intelligenza collettiva" descritta da Pierre Levy sul finire degli anni novanta. Gli algoritmi e la statistica hanno fatto il resto. Insomma, non c'e' scampo.
L'incontro al Tech Museum mi ricorda le sessioni degli Alcolisti Anonimi, per lo meno come sono state rappresentate dal cinema (tra i miei numerosi vizi e perversioni non c'è quello dell'alcohol, grazie al cielo). Dopo una breve presentazione/introduzione della trifecta Wolf/Kelly/Carmichael, un tracker presenta al pubblico le propria attività di tracking, illustrando ragioni che lo hanno spinto ad auto-monitorarsi. Le presentazioni hanno una struttura insieme rigida e aperta. Il pubblico ascolta lo speaker in modo educato e paziente per una decina di minuti e quindi rivolge una serie di domande, a raffica. Le più gettonate sono: “Quanto tempo richiede questo particolare ‘tracking’?”, “Quali effetti hai notato dopo aver cominciato l’attività di annotazione?”, “Ne vale davvero la pena?” e, soprattutto, “Ora, sei più felice?”. Si moltiplicano i suggerimenti per implementare/migliorare/ampliare le tecniche di registrazione e analisi dei dati. Tutte le presentazioni sono altamente spettacolari; è il trionfo dell'infoporn, grafici, tabelle, numeri, diagrammi... Alcune diapositive manderebbero su tutte le furie Edward Tufte, altre sembrano opere d'arte concettuali, animate grazie a processing dai maghi della visualizzazione. Dopotutto, siamo nella Valley: le tribù della rete parlano powerpoint e tweets.
flowing.data data visualizations (link)
Le presentazioni sono un po' come il karaoke: la performance funziona meglio se sei alticcio. Ora, ignoro se Bill Jarrold, un ricercatore della University of California, Davis, questa sera sia sbronzo. Ma la sua espressione comunica un messaggio urgente: "Ho bisogno di un drink. Un altro". Bill racconta le sue esperienze di programmatore UNIX:
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Più che un racconto, una confessione. “Qualche anno fa ho cominciato a registrare il numero di istruzioni che ero in grado di compilare su base giornaliera, con l'obiettivo di ottimizzare la mia produttività. Volevo capire i meccanismi sottesi alla mia creatività ed efficienza.” Bill ci conduce sulle montagne russe delle sue parabole (geometriche, non morali). Scopriamo che il suo picco di creatività si verifica attorno a mezzanotte, mentre attorno al primo pomeriggio, il suo output crolla drasticamente. Ma durante la sessione di domanda-e-risposta che segue la presentazione, alcuni spettatori mettono in discussione il presupposto stesso della ricerca: “Il numero di linee di codice prodotte non è un parametro adeguato per misurare l’efficienza o la produttività – afferma un coder che lavora presso lo Stanford Research Institute (SRI). La qualità di un programma non si misura dal numero di linee”. Bill accusa il colpo. "Si potrebbe affermare che minore il numero di linee prodotte, maggiore la produttività”. Da buon ingegnere, Bill decide di prendersi qualche giorno per riflettere sulla questione, promettendo una risposta sensata al prossimo meet-up. “Sono d’accordo: una registrazione meramente quantitativa dei dati non è sufficiente – afferma – occorre affiancarla a un'analisi qualitativa”. Applausi. Avanti il prossimo.
Dopo Bill, scende in campo Jim Karavala. Il suo obiettivo è ancora più ambizioso. Mappare i processi creativi tout court, annotando ogni singola idea che si affaccia nel cervello e collegandola, in forma ipertestuale, ai file memorizzati sul computer e disponibili in rete, trasformando il laptop in una specie di cervello extra-corporeo, la manifestazione dei nostri movimenti cognitivi. Una sorta di Xanadu 2.0. Jim sta lavorando a un’applicazione che consente di quantificare in forma dinamica le mappe concettuali, promettendo un’interfaccia di navigazione “paragonabile a quella di Minority Report”, in cui i vari nodi possono essere selezionati con un semplice gesto della mano. Espandendo un programma già esistente e reperibile in rete e combinandolo con Microsoft Project, il ricercatore ambisce ad indicizzare i pensieri. “Ne ho già raccolti 65,000 sul mio laptop”, dichiara orgoglioso. “Voglio creare il disco fisso della mia mente” continua alla velocità della luce, “per comprendere i processi mentali del cervello”. “Non si tratta solo di memorizzare informazioni, ma valutare la qualità e la rilevanza delle informazioni archiviate”. Sembra di trovarsi di fronte a un clone di Ray Kurzweil, a un fan di Charlie Kaufman... Paul Saffo alza la mano e sollecita dei filtri ad hoc “per navigare una mole di informazioni potenzialmente travolgente”. Mi viene in mente un'applicazione/progetto artistico assai popolare qualche anno fa, They Rule e domando a Jim se la pratica di annotazione ultra-dettagliata abbia rivelato qualche sorpresa, collegamenti inattesi. Il nostro risponde che spiegare le dinamiche di associazione di idee è un’impresa che coinvolge tanto la psicologia quanto la neuroscienza. Ok. Mentre assisto alla presentazione e al dibattito che segue, mi tornano in mente film come Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Cold Souls. Concludo che se c’è qualcuno capace di trasformare queste fantasie in realtà, probabilmente si trova in sala.
Il terzo performer è Bharat Vasan, un ragazzo giovanissimo, vent’anni al massimo, una t-shirt con la scritta “I like Wikipedia ‘cuz it lets you make you stuff up” (trad. “Mi piace Wikipedia perché mi permette di inventarmi cose”). Bharat – un background nello sviluppo di videogiochi – è un esponente di un fenomeno parallelo al personal tracking che potremmo definire gamification of life (letteramente; ludizzazione della realtà), che consiste nell’applicare strategie tipiche dei videogame in altri contesti della nostra vita, dalla socializzazione online al risparmio energetico. Un esempio classico è foursquare, un servizio di personal tracking che ci permette di annotare e comunicare ad altri i luoghi visitati nel corso della giornata, trasformando le deambulazioni urbane in una sorta di meta-gioco situazionista. Il progetto a cui sta lavorando attualmente consiste nell’”umanizzare la mole di informazioni che ci circonda e che sta diventando progressivamente difficile da gestire e decodificare”. Detto altrimenti, si tratta di semplificare – automatizzandoli – i processi di tracking. “Perché se l’obiettivo ultimo è diventare felici, è chiaro che non ci stiamo particolarmente divertendo ad annotare ogni dettaglio della nostra vita quotidiana”.
A ben vedere, così com’è attualmente praticato, il personal tracking non è poi così diferente dal dogma cristiano: entrambe le religioni predicano una vita di sacrifici – nel caso del sè quantificato, la registrazione perpetua dei propri comportamenti – per una non ben precisata ricompensa che culminerà con una trasformazione complessiva dell'individuo (vita eterna nel primo caso, esistenza terrena illuminata nell’altro). Il nostro celebra l'“auto-riflessione quantitativa” per mezzo di dispositivi quali il PulseTracer, un misuratore di battiti cardiaci che registra i livelli di stress di un individuo. “Indossando questo dispositivo – afferma Bharat – ho scoperto, per esempio, che la mia fidanzata mi stressa più del mio lavoro. Il che ha sollecitato tutta una serie di domande sul mio stato di felicità attuale e sui miei obiettivi a medio/lungo termine”. Una ragazza alza la mano e domanda se il nostro sarebbe giunto alla stessa conclusione senza il magico misuratore da polso. “Probabilmente sì,” risponde il nostro, “Ma la tecnologia rende trasparente cose che non vogliamo ammettere o riconoscere” Risate nervose. PulseTracer costa $150 e promette rivelazioni senza prezzo. Per dimostrare la validità dell’apparecchio, il nostro mostra al pubblico il display: 110 battiti cardiaci al minuto. “Parlare in pubblico mi terrorizza,” confessa. Applausi. "Sei tra amici", lo rassicura Kelly.
Il quarto speaker: Alex Bangs racconta le sue esperienze personali con un altro popolare (per lo meno nella Valley) "misuratore di abitudini quotidiane", Direct Life di Philips, affermando che “piccoli cambiamenti quotidiani possono apportare trasformazioni radicali”. Alex vuole “migliorare la qualità della vita attraverso un rigido controllo comportamentale". Risultati? "DirectLife mi ha spinto a muovermi di più, ad essere più attivo”. L'apparecchio sviluppato da Philips offre sistemi di gratificazione instantanea tipica dei videogame, anche banali, tipo l’illuminazione del sensore per segnalare/confermare il raggiungimento dell’obiettivo. Il dibattito evolve/degenera rapidamente in un confronto aperto Fitbit vs. DirectLife che ricorda i dibattiti dei fanboys Nintendo contro Sega degli anni Novanta. Ci si interroga sull’accuratezza dei dati e ci si lamenta del fatto che dimenticando a casa il gingillo, si rischia di compromettere i risultati. Wolf confessa “A tutt'oggi, ho perso due Fitbit e un DirectLife. Ma non ho perso la fede”. Risate.
L'atmosfera è rilassata, ma l'imperativo al self-help è palpabile. Del resto, il principio sotteso a questi incontri e all'intera filosofia del personal tracking è un fenomeno psicologico noto come "Effetto Hawthorne", secondo il quale gli individui tendono a comportarsi meglio quando sanno di essere osservati e scrutati. Scoperto negli anni venti dai sociologi Elton Mayo e Fritz Roethlisberger nel corso di una serie di studi sul rapporto tra l'ambiente di lavoro e la produttività dei dipendenti, l'effetto Hawthone indica l'insieme delle variazioni di un fenomeno/comportamento che si verificano per la presenza di osservatori. Secondo i due sociologi, l'efficienza nel raggiungimento di un obiettivo è strettamente correlata all'atteggiamento nei confronti del lavoro. Non solo: la possibilità di comunicare ad altri il proprio stato d'animo è fondamentale ai fini della produttività. Il personal tracking è al tempo stesso un esercizio di narcisismo, ma anche una tecnica per stabilire connessioni con altri individui. Si tratta di comprendere se il nostro comportamento sia "normale" (statisticamente parlando) oppure anomalo e, cosa più importante, capire se esistono altri individui come noi. Se ancora non fosse chiaro, la Silicon Valley e' piena di folli che guidano Tesla e creano start-up milionarie, performano online e offline e registrano ogni movimento.
Le varie presentazioni sono intervallate da conversazioni tra i vari trackers, in cui ognuno descrive le proprie skillz ("abilità) di annotazione e registrazione. Colleziono biglietti da visita come se fossero Pokémon. Da buon etnografo, osservo e prendo appunti. Ricorrono professioni che sembrano uscite da un film di fantascienza tipo Gattaca: “data decision”, “augmented reality”, "money behavior”, “exacting tracking”, "behavior monitoring", "location tracking", “cool hunting”, “sleep analytics”, “nutritional traceability”, “data logging”, "lifelogging", “mapping”, " psychological self-assesments", “trend prediction”, "personal genome sequencing", “customized genetics”, “motivational techniques”, “big pharma”, “expanding creativity”, “well being” e “personalized life extension”. Mi cade l’occhio su cose tipo “space exploration”, “pokemon pedometer”, “gamification”, “singularity”, “games for health”.
Come avrete capito, quella dei tracker e' una nicchia, una sottocultura tipicamente geek. Ma una nicchia assai influente da queste parti. Del resto, da sempre, i geek fanno da battistrada. Per capire le grandi trasformazioni sociali degli ultimi cent'anni, basterebbe studiare le dinamiche di diffusione e adozione delle nuove tecnologie tra specifici segmenti di consumatori, gli early adopter. Non va inoltre dimenticato, che questa tipologia di analisi attenta dei consumi e dei trend è assai comune nel contesto industriale e governativo. La vera novità è che questa prassi oggi sta diventando individuale, personale, soggettiva. Quel che ancora manca al personal tracking è un iTrack, l'equivalente dell'iPhone o dell'iPad: un dispositivo a prova d'idiota, stiloso, promosso dall'uomo più carismatico della Valley, che registra tutto automaticamente. Prima o poi arriverà, è solo questione di tempo. Nel frattempo, i tracker sfruttano aggeggi già disponibili sul mercato oppure ne sviluppano di nuovi. Dopo tutto, la cultura del fai-da-te (DIY) è uno degli imperativi della cultura hacker. nel frattempo, un numero crescente di individui si e' trasformato in tamagotchi.
Me compreso.
Il mio interesse per il fenomeno del quantified self, lo confesso, non è meramente etnografico o giornalistico. È strettamente personale. Da qualche anno ormai, registro svariate abitudini con scientifica precisione. Una di queste è il jogging, grazie al sistema Nike+, introdotto qualche anno fa da Nike ed Apple: un sensore nelle mia scarpe da tennis “comunica” in tempo reale con un ricevitore collegato al mio iPod, registrando le calorie che brucio correndo, il numero di miglia/chilometri percorsi e consentendomi persino di mappare le mie corse. Un recente gingillo introdotto da Nike misura inoltre il mio battito cardiaco, espandendo così il ventaglio di informazioni registrabili. Sfido i miei amici sparsi per il mondo, partecipando a competizioni insieme reali (corro "per davvero") e virtuali (perché le gare sono dislocate - sia intermini geografici che temporali). Il mio MiniMe, l'avatar corridore SuperMatt, mi rappresenta sul mio blog. Quando non corro per qualche giorno, l'omino si lamenta pubblicamente, definendomi "pigro". Il che rappresenta un ulteriore stimolo a trovare il tempo per una corsa. Non posso certo permettere al mio alter ego di umiliarmi pubblicamente! De facto, sono succube del piccolo bastardo.
Uso inoltre LiveStrong Calorie Tracker per registrare ogni sostanza – solida e liquida – che ingerisco nel corso di una giornata. Il mio obiettivo non è tanto perdere peso, quanto verificare sul campo se la mia dieta sia equilibrata o meno. Vegetariano dall’età di quindici anni – con tendenze vegane – ho sempre prestato particolare attenzione all'apporto proteico, se non altro per sfatare la leggenda metropolitana che i vegetariani non assumono un numero adeguato di aminoacidi complessi. Una dieta equilibrata, tuttavia, prevede un corretto bilanciamento tra fibre, carboidrati, zuccheri... E su questo fronte, il margine di miglioramento e' ampio... Altre domande che motivano la mia auto-indagine sono: quanti milligrammi di caffeina ingerisco ogni giorno? Il mio consumo di alcolici è nella “norma”? Sono carente di minerali? E più in generale: qual è il rapporto tra umore e nutrizione, stato d'animo e alimentazione?
Per quanto oggettivamente tedioso, questo sistema di annotazioni mi ha consentito di accumulare una quantità sorprendente di informazioni e di concludere, per esempio, che consumo molte più proteine – ma anche zuccheri – del necessario. Per quanto un semplice sistema di annotazione non puo' certo rimpiazzare l'expertise di un nutrizionista, i dati raccolti mi hanno reso relativamente autonomo. E nel caso in cui dovessi interpellare un medico per chiedere delucidazioni in merito a un disturbo fisico, potrei fornire informazioni dettagliate sulle mie abitudini alimentari, con tanto di grafici, diagrammi e tabelle.
Se ancora non fosse chiaro, il personal tracking è un’occupazione a tempo pieno. I dispositivi tecnologici semplificano la prassi di registrazione e di raccolta delle informazioni, ma non la sostituiscono. L’utente deve pur sempre dedicare parte della sua giornata a trascrivere i dati sul proprio computer o a sincronizzare un numero crescente di aggeggi con il proprio computer. Si potrebbe affermare che un tracker è un neo-cartografo che disegna mappe grandi quanto il territorio, mappe in continua espansione. L'obiettivo è ridurre al minimo la cosiddetta terra incognita. Ergo, il tracking è per molti, ma non per tutti. Senza forza di volontà, determinazione e costanza, questa prassi è destinata allo scacco. C'e' chi parla di chip sottocutanei, ma qui siamo in pieno territorio Johnny Mnemonic...
In secondo luogo, la raccolta dei dati è del tutto inutile se le informazioni non vengono esaminate con attenzione. La registrazione e l'annotazione sono solo il primo passo di un processo di auto-analisi permanente. Studiando attentamente il materiale raccolto, cerchiamo di scorgere fenomeni ricorrenti e inaspettati, anomalie e regolarità. Torna in mente lo splendido romanzo di William Gibson, Pattern Recognition (tradotto stupidamente in italiano come L'accademia dei sogni, 2003). Già il titolo è un manifesto: pattern recognition significa individuazione di fenomeni. E il pattern recognition non è paragonabile all’epifania joyciana o all'eureka pitagorico, quasi random, imprevedibile: è un processo che richiede uno studio attento, prolungato. Analogamente, il personal tracking è una pratica insieme deduttiva e induttiva: occorre decifrare i dati, stabilire correlazioni, percorrere piste senza farsi depistare dalle apparenze. Il tracker una sorta di investigatore. L'investigatore del privato. Il detective del subconscio estrinsecato in una miriade di micro-azioni. La sua vera ambizione è comprendere il micro per spiegare il macro. Prendi Maximillian, in protagonista di Pi. Il teorema del delirio (1998), che è un pò il testo sacro del tracker. Nel capolavoro di Darren Aronofski, Maximillian crea un super-computer usando pezzi di scarto. Il suo obiettivo è tanto semplice quanto ambizioso: comprendere il funzionamento della borsa, individuare l’algoritmo alla base di un sistema apprentemente caotico e imprevedibile. Questo progetto, a sua volta, fa parte di un progetto ancora più meta: usare la matematica per spiegare il Tutto.
Personal tracker si diventa, non si nasce. Nelle conversazioni con i miei "colleghi", al Tech e altrove, di persona ed online, concludo che in tutti i casi c’è un trigger, un fattore scatenante. Un esame medico spinge Tom a ridurrre drasticamente in consumo di zuccheri: "Il tuo esame del DNA rivela che hai il 36% di possibilità di sviluppare il diabete prima dei sessant'anni". E Tom - che fino ad allora si credeva immortale e invincibile - comincia a prestare attenzione. A modificare le sue abitudini. Dopo un incidente d’auto causato da un colpo di sonno improvviso sulla 280 South che collega la Silicon Valley alla Bay Area, Stevie decide di confrontare il suo demone, l’insonnia. Comincia a registrare con maniacale precisione il rapporto veglia/sonno, usando Fitbit.
Mi domandano perché ho cominciato ad annotare alcune mie abitudini e resto in silenzio. La domanda mi spiazza: confesso di non averci mai riflettuto a sufficienza. “Quando hai cominciato?” Mi chiedono. “Hmmm, tre anni fa circa”, rispondo. “C’è stato qualche elemento scatenante, un episodio inaspettato?". “Hmmm, no, non mi pare prop...”. Lascio la frase in sospeso. Realizzo, improvvisamente, che la mia tendenza alla registrazione è recente e ha a che fare con alcuni eventi della mia storia personale che ho raccontato qui.
In sintesi: tre anni fa, mia moglie - una bella pubblicitaria di origini russe - mi ha lasciato. Ho scoperto in seguito che aveva un’altra vita parallela a Milano, un altro partner, un altro lavoro, un altro appartamento. Ottenuto il visto di cittadinanza italiana allo scadere dei termini prescritti dalla legge, si è volatilizzata, abbandonando San Francisco per Milano. Con il tempo ho capito che questo evento ha avuto sulla mia psiche ripercussioni epistemologiche più che emotive. Mi spiego meglio: quando ti rendi conto che la realtà quotidiana, che dai per scontata, è pura simulazione, un po' come in Truman Show, cominci a dubitare della consistenza ontologica del reale tout court. Cominci a prestare maggiore attenzione alle cose, ai dettagli, alle dinamiche, anche a quelle più banali. Il che non significa necessariamente sviluppare manie compulsive (obsessive compulsive disorder). Non significa diventare control freak. Significa, piuttosto, interrogarsi criticamente sul proprio modus vivendi. Per migliorare laddove avverti delle mancanze, possibili lacune, sul piano fisico ed intellettuale. Perche' non hai tempo infinito a disposizione, come in alcuni videogame. Tempus fugit. E cominci a guardarti attorno con rinnovato interesse. Ad apprezzare ogni istante. Ciò che accomuna i trackers con cui ho avuto modo di parlare in questi mesi, in un modo o nell’altro, é un travolgente desiderio di crescere, di evolvere, di sviluppare nuove abilità o correggere eventuali imperfezioni.
E tenere sotto controllo le uniche cose che dipendono effettivamente da noi, perché tutto il resto è caos, è random, è maya.
Per alcuni, il personal tracking rappresenta l’unica tecnica efficace per raggiungere la felicità.
Perché la felicità personale è la condizione necessaria, ma non sufficiente, per rendere felici gli altri.
Per tutti i tracker, le pratiche di auto-registrazione sono insieme una patologia e la sua terapia.
L'effetto di un trauma e il suo esorcismo.
Quantifico, dunque sono.
"E come dicono i proverbi
e lo dice anche mio zio
mente sana in corpo sano
e adesso son convinto anch'io"
(Luca Carboni, "Ci vuole un fisico bestiale", 1991)
San Francisco, 11 ottobre 2010
Matteo Bittanti