Questo saggioe' stato originariamente pubblicato su LINK Mono (novembre 2011), ora disponibile nelle milgiori librerie online e di mattoni.
Lo trovate anche sul blog di LINK in due puntate (prima parte e seconda parte).
Buona lettura!
"Marshall McLuhan non amava particolarmente fornire spiegazioni. A chi, ingenuamente, gli poneva domande, rispondeva in modo criptico. I suoi responsi? Rebus da decifrare. Le sue dimostrazioni? Aforismi. Anzi slogan. Scoraggiava gli intervistatori più tenaci con affermazioni micidiali. Tipo questa: “Non condivido necessariamente tutto quello che dico”. Non amava particolarmente scrivere. Il suo medium preferito era la voce. Il parlato. L’oralità – primaria e secondaria (ovvero: im-mediata e mediata). La maggior parte dei suoi libri sono stati “dettati” alla sua segretaria, ai suoi assistenti, ai suoi collaboratori. Oggi McLuhan è ricordato come l’autore dimantra profetici, venerato come un media guru. Ai tempi, tuttavia, è stato osteggiato dall’establishment accademico – notoriamente reazionario, diffidente verso il nuovo, feudale & ferale – e generalmente incompreso dall’oi polloinonostante un breve flirt con i mass-media, sempre alla ricerca di nuovi freak da esibire nei suoi circhi catodici. Anche per questo motivo, leggere o ri-leggere McLuhan oggi ha poco senso. Semmai, McLuhan va ascoltato. Con attenzione. McLuhan ci parla. In rete. Marshall McLuhan Speaks, una raccolta di registrazioni, per lo più televisive, risalenti agli anni Sessanta e Settanta – paiono capsule del tempo, contenitori appositamente preparati per conservare informazioni destinate a essere ritrovate in un’epoca futura. Le capsule del tempo sono un metodo per comunicare in modo unidirezionale e (in)diretto con il futuro. Quel futuro è adesso. I destinatari siamo noi. Marshall McLuhan Speaks rappresenta il modo migliore per accostarsi (o ri-avvicinarsi) al suo pensiero.
(D)istruzioni per l’uso
Vi invito a interrompere la lettura di questo articolo, aprire il vostro browser e puntarlo su Marshall McLuhan Speaks.Ascoltate la sua voce. Sentite le sue profezie. Orecchiate la sua retorica. E poi tornate qui, se vi va. Vi invito a confrontare il parlato allo scritto. L’originale alla traduzione. Al tradimento. I miei commenti a tergo hanno un’unica funzione: chiarire, anzi, confondere le cose. Vi invito a viaggiare. Sì, viaggiare. A spostarvi dalla pagina allo schermo, dallo schermo alla pagina. Perché una pubblicazione incapace di dialogare con la rete, a interagire con le immagini in movimento, a ingaggiare un contraddittorio con la parola proferita, non ha più alcun senso. Perché il senso trascende la pagina. Perché il sensotravolge la pagina. Perché oggi l’alfabetizzazione non si limita al testo scritto, alla parola cartacea. L’alfabetizzazione, oggi, passa dallo schermo. Anzi, daglischermi.Buona visione. Buon ascolto. Buona lettura.
Il futuro non è più quello di una volta (1965)
L’ambiente in cui viviamo, afferma McLuhan in un’intervista del 1965, sta diventando un “colossale artefatto”, un ambiente che risponde ai nostri stimoli, anziché essere mero sfondo alle nostre azioni. Si tratta di un ambiente che reagisce in tempo reale. In un’era in cui i flussi invisibili di informazioni che riceviamo ed emettiamo in tempo reale attraverso i sensori dei nostrismartphone che ci accompagnano nelle peregrinazioni urbane creano traiettorie e pattern che qualcuno, da qualche parte, vede, cataloga e classifica, le parole altrimenti oscure di McLuhan acquistano una sorprendentemente chiarezza. La data visualization traduce l’informazione in arte. E l’informazione, come ricorda James Gleick nel suo ultimo, fenomenale lavoro, The Information (2011), è un elemento primario, come l’aria, l’acqua, il fuoco. Nel ventesimo secolo la natura scompare, dice McLuhan a un incredulo Norman Mailer in un celebre dibattito tv del 1968, perché non esiste altro che informazione.
La pubblicità (1966)
McLuhan odiava la televisione, ma a differenza di molti suo contemporanei, non la snobbava né la sottovalutava. Era consapevole della sua forza diabolica. Anche per questo, amava dialogare, o meglio, monologare con il tubo catodico. Nel 1966, da questo pulpito secolare, McLuhan dichiarava a milioni di spettatori che “in futuro, la pubblicità dei prodotti finirà per rimpiazzare i prodotti stessi. Trarremo piacere dal consumo informazionale della pubblicità e non dai prodotti, che del resto non sono che semplici numeri in un colossale database”. Quest’affermazione – praticamente una sintesi (nonchéupdate) del suo primo libro, La sposa meccanica. Il folclore dell’uomo industriale (1951), uno dei migliori non-trattati sulla pubblicità di tutti i tempi – anticipa gli incubi iper-consumistici di Philip K. Dick (Ubik è del 1969) e i simulacri di Jean Baudrillard, allora impegnato sulla tesi di dottorato (Il sistema degli oggetti, 1968). La pubblicità è (sempre) informazione. L’informazione è (sempre) promozione. Non esiste alcuna differenza qualitativa tra notizie e annunci, dato che i mass media non producono notizie, si limitano a vendere il pubblico agli inserzionisti. Scriveva McLuhan nel 1964: “Gli annunci sono notizie. Il problema è che si tratta sempre di buone notizie. Per equilibrare il loro effetto e vendere in modo efficace una buona notizia è indispensabile che i giornali e la tv presentino un mucchio di cattive notizie”. Non solo. McLuhan capisce prima/meglio di altri che la pubblicità si rivolge al nostro subconscio, non alla sfera razionale. Ora, il nostro subconscio non è razionale. Ergo, per essere efficace la pubblicità deve necessariamente trasformarsi in pura esperienza, emozione. Negli anni Novanta, si fa strada il cosiddetto emotional branding (descritto e condannato, per esempio, in No Logo di Naomi Klein). Ma negli anni Sessanta, quando la pubblicità è ancora mera comunicazione, McLuhan scrive che “ognuno di noi sperimenta più di quanto riesce a comprendere. Tuttavia è l’esperienza, non la comprensione, a influenzare il nostro comportamento”. Consumare una merce equivale, essenzialmente, a consumare esperienze visuali. Immagini. L’oggetto è del tutto ridondante. E anche se non comprendiamo che una minima parte di quello che sperimentiamo, sono leesperienze a condizionare i nostri valori, preferenze, abitudini e scelte. Come ci ricorda Dan Ariely, siamo creature prevedibilmente irrazionali, facilmente manipolabili. Oggi più di ieri.
Il futuro del libro e la trasformazione dei prodotti in servizi (1966)
Attorno alla metà degli anni Sessanta, McLuhan descrive con sorprendente precisione il futuro della comunicazione: “invece di andare in un negozio per acquistare un libro di cui sono state stampate, che so, cinquemila copie, prenderemo in mano la cornetta del telefono e comunicheremo a un terminale remoto le nostre competenze linguistiche (per esempio, sanscrito e tedesco), interessi (la matematica) e bisogni specifici. Dopo aver ricevuto queste informazioni, il bibliotecario del futuro recupererà, grazie all’aiuto prezioso dei computer, informazioni utili alla nostra ricerca, le fotocopierà e ce le invierà a casa” (enfasi aggiunta). In questo paragrafo c’è tutto: internet, gli aggregatori di notizie e di feed, la commutazione di pacchetto (che contraddistingue le modalità di trasferimento dati delle reti di telecomunicazione), la personalizzazione, la stampa on-demand, gli ebook, i motori di ricerca. Si noti che nel 1977, Ken Olson, presidente, CEO e fondatore di Digital Equipment Corp. (DEC), una delle più importanti aziende di computer della storia americana, dichiara (!): “Non vedo alcuna ragione per cui un individuo debba volere installare un computer in casa propria”. In Understanding Media (1964, stupidamente tradotto in italiano come Gli strumenti del comunicare), McLuhan aggiunge che l’uomo elettrico non è in fondo differente dal suo antenato dell’era paleolitica. Sono entrambi cacciatori, solo che il primo va in cerca di informazioni, il secondo di cibo. Si potrebbe aggiungere che, per l’uomo elettrico, l’informazione è cibo, sostentamento fisico, non semplice nutrimento cognitivo. C’è di più. Nell’era elettrica i prodotti diventano servizi. Pertanto, il futuro dell’informazione non consiste tanto nel libro – nemmeno nell’ebook, inteso come pacchetto di informazioni predefinite a monte da un autore/editore – quanto in pacchetti di informazione personalizzabili, dati creati con una logica just in time e distribuiti attraverso la formula dell’on demand. Oggi, l’informazione in quanto tale è un servizio: testi, immagini, suoni, giochi. Non un contenuto: un canale. Non un messaggio: un mezzo. I prodotti sono servizi, amava ripetere McLuhan. L’era del prodotto inscatolato, da acquistare in un negozio e portare a casa per una successiva consumazione, è finita. È finita da tempo, anche se in alcuni contesti, per esempio l’Italia del 2011, questa realtà è tale solo per pochi, mentre per i più rappresenta un’ipotesi, uno scenario ir-reale, fantascientifico, utopico o distopico a seconda del proprio credo politico.
“Il futuro del futuro è il presente” (1968)
Il concetto dello “specchietto retrovisore” non ha perso smalto, anzi. Secondo McLuhan, i cambi di paradigma tecnologici, l’affacciarsi sulla scena di visioni di mondo radicalmente differenti, l’avvento dei nuovi media possono ottenere successo (sociale, commerciale, culturale) solo nella misura in cui il fattore novità che introducono è assimilabile al vecchio. Detto altrimenti: dal momento che le innovazioni tecnologiche producono effetti destabilizzanti – sul piano epistemologico e cognitivo – l’unico modo per accettare il futuro è concepirlo come una mera variazione del presente. Sotto questa luce, il nuovo non è altro che il vecchio sotto mentite spoglie. Gli esempi si sprecano: il cinema è “teatro su pellicola”. Il videogioco è “cinema interattivo”. L’ebook è “un libro elettronico”. Skype è “la televisione di internet”. Le interfacce dei computer sfruttano metafore analogiche – per esempio il “desktop”, i “cassetti”, i “documenti”. Escamotage pacchiani, per non dire abnormi errori concettuali. Tuttavia tolleriamo, anzi, incoraggiamo queste deboli analogie perché non possediamo (ancora) le categorie concettuali adeguate per cogliere lo specifico di un nuovo medium. Per tanto guidiamo (verso il futuro, l’inaspettato, l’imprevedibile) con gli occhi rivolti a quello che ci sta dietro (il passato, il noto, il prevedibile). Invece di mettere a fuoco quello che si staglia oltre il parabrezza, fissiamo quasi ipnotizzati lo specchietto retrovisore. Corollario: “Il futuro è già arrivato, ma non è equamente distribuito” (William Gibson). Mentre negli Stati Uniti le grandi catene di librerie stanno chiudendo perché le modalità di consumo delle informazioni sono profondamente cambiate, in Italia le librerie o, meglio, i multistore, spuntano come funghi. L’evento culturale del 2010 a Milano è stata l’apertura di un enorme punto vendita Feltrinelli alla stazione centrale di Milano. Analogamente, mentre negli Stati Uniti i centri commerciali sono ormai in crisi, in Italia proliferano gli scatoloni di cemento che vendono merci di ogni tipo: Bennet, Esselunga, Saturn, Trony, Gigante, Coop... Anche in questo, l’Italia sconta un ritardo di trent’anni rispetto agli Stati Uniti. O, meglio, il Belpaese sta ripetendo tutti gli errori commessi dagli americani trent’anni fa: distruzione dei piccoli commercianti indipendenti (negozi di alimentari), svuotamento dei centri storici dei paesi soffocati dai mega-shopping center delle zone suburbane, che a loro volta creano sprawl urbani iper-mercificati. Nel 1968, McLuhan conclude che “il futuro del presente è il presente”, un’affermazione traducibile/travisabile così: il futuro è già qui, ma coesiste con il presente. Riconoscere il futuro non è facile, perché è sempre mascherato da presente. Il che spiega perché oggi il presente tende a diventare incomprensibile in pochi minuti. Il presente scivola nel futuro, perché il futuro arriva prima, più in fretta di un tempo. L’innovazione si evolve a ritmi esponenziali, non lineari. Come dice Ray Kurzweil, viviamo in tempi accelerati. Il presente si comprime. Qualcuno si deprime perché “l’accelerazione è tendenzialmente totale, e pone fine allo spazio come fattore principale degli assetti sociali” (McLuhan, 1964).
Privacy e identità nell’era del villaggio globale I (1968)
L’avvento dei nuovi media ridefinisce la nozione di privacy e identità. Riscrive letteralmente le regole del gioco. Pochi, tuttavia, sono in grado di cogliere il portato dell’innovazione. Dice McLuhan: “nell’era elettrica ogni individuo è direttamente coinvolto nella vita degli altri. Ogni individuo gestisce fenomeni complessi che si svolgono in tempo reale in un ambiente totale. In questo contesto, le tradizionali modalità di individuazione – per esempio, la carta di identità – non avranno più senso. Per sapere veramente chi siamo dovremo tornare ad applicare filosofie e prassi di natura esistenziale”. McLuhan evoca il filosofo danese Soren Kierkegaard, uno dei padri dell’esistenzialismo, per spiegare che i convenzionali fattori di riconoscimento “esteriore” – età, occupazione – si rivelano del tutto inutili nell’era elettrica per contrassegnare le forme di identità privata. “La caratteristica essenziale dell’era elettrica – scrive McLuhan in Understanding Media – è la creazione di una rete globale che presenta caratteristiche simili a quelle del nostro sistema nervoso centrale”. Per questo motivo, gli effetti dei media sono biologici prima ancora che tecnologici. In altre parole: i media che inventiamo finiscono per modificarci a livello corporeo e neurologico. I nuovi media creano dunque nuove possibilità, nuove protesi, anche nuove patologie: la schizofrenia dell’identità virtuale, per esempio. O la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, come sostiene, per esempio il Nicholas Carr di The Shallows (2010). L’effetto collaterale dell’accelerazione di cui sopra? In Understanding Media leggiamo: “La velocità dell’elettricità miscela le culture del passato con la feccia del marketing, gli an-alfabeti con i semi-alfabeti e post-alfabeti. Il che finisce per produrre crisi mentali di varia entità”. Questo vuol forse dire che pensare nell’era elettrica è diventato del tutto impossibile? No, ma bisogna sviluppare nuove tecniche cognitive. “Per pensare occorre dimenticare la maggior parte di ciò che si sta vivendo per relazionarsi con cose che in precedenza si sapevano, altrimenti non si può dedurre nulla di ciò che stiamo vedendo”, afferma McLuhan con il suo stile insieme opaco e trasparente. I corto-circuiti epistemologici hanno conseguenze ontologiche dato che la nostra identità è puramente informazionale: “Nell’era elettrica – scrive l’oracolo canadese – stiamo diventando pura informazione. Stiamo estendendo tecnologicamente la nostra coscienza”. Il che solleva interessanti questioni. Per esempio: “Preso atto dell’attuale traslazione delle nostre intere vite nella forma spirituale dell’informazione, non si potrebbe affermare che l’intero pianeta e la razza umana stiano convergendo in un’unica coscienza?” (McLuhan, 1964).
Privacy e identità nell’era del villaggio globale II (1968)
Ci stiamo muovendo verso un’esistenza puramente informazionale anche grazie a servizi di social network che ci consentono di giocare un ruolo, performare di fronte a un pubblico, ma soprattutto, di fronte a noi stessi. Come si socializza nell’era elettrica? “La dimensione dell’interesse umano è semplicemente quella dell’immediatezza della partecipazione nell’esperienza di altri che si verifica con la manipolazione delle informazioni in tempo reale” (McLuhan, 1964). La socializzazione nell’era elettrica è Facebook. Cosa significa? Significa che concetti come identità e privacy cambiano radicalmente. “La nozione di privacy era praticamente sconosciuta nell’era di Shakespeare – dice McLuhan –. La privacy si fonda sulla nozione di spazi separati, conchiusi e in quell’epoca la gente non sentiva il bisogno di vivere in contesti separati. Dopo l’avvento del libro, del consumo individuale dell’informazione, si fa strada l’esigenza dell’isolamento. Ci si isola per concentrarsi, per studiare eccetera. Insomma, la nostra idea di privacy differisce considerevolmente da quella originaria. Non a caso, la sede di un’azienda di Toronto è stata completamente riorganizzata. A livello architettonico: sono state abbattute le pareti che separavano i singoli uffici, in modo da creare grandi stanze in cui tutti i collaboratori comunicano tra di loro seduti ai tavoli rotondi, in modo da incentivarli a condividere informazioni e reagire tempestivamente alle fluttuazioni del mercato, a eventi globali eccetera, per facilitare il dialogo. Nel 2011, la nozione di privacy è radicalmente differente rispetto a quella descritta da McLuhan. È come se avessimo abbattuto le pareti delle nostre stessi abitazioni per mostrarci al mondo, in tempo reale, trascendendo la tradizionale dicotomia tra pubblico e privato, nel nome della trasparenza, come in quella scena del capolavoro di Jacques Tati, Playtime (1967). Con tutte le conseguenze che ciò comporta.Nel 1962, McLuhan osserva: “Il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello dei racconti di fantascienza per bambini. E mentre i sensi vanno fuori da noi, il Grande fratello entra in noi. Così, se non riusciremo a renderci conto di questa dinamica, ci ritroveremo improvvisamente in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata a un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e coesistenza imposta dall’alto”. Qual è il senso della vita nell’era elettrica? “Conoscere e apprendere. Tutte le forme di ricchezza deriveranno dal movimento dell’informazione”, scrive McLuhan in Understanding Media. In una riga, si tratta del business model di Google, un’azienda che conosce e apprende tutto di noi, monetizzando, in tempo reale questa conoscenza. “Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e il sistema nervoso alla manipolazione privata di chi cerca di trarre vantaggio dall’affitto dei nostri occhi, orecchie e sistema nervoso centrale, a noi non rimane nulla. Perdiamo ogni diritto di proprietà” (McLuhan, 1964). In Culture is Our Business (1970), McLuhan conclude: “L’invasione della privacy costituisce oggi una delle nostre più grandi industrie della conoscenza”. Mark “Dumb Fucks” Zuckerberg ne sa qualcosa.
L’era dell’esplosione dell’informazione (1968)
“Viviamo nell’era dell’informazione esplosa. Quando le pareti che tradizionalmente separavano i gruppi di età, sociali, nazioni e interi mercati scompaiono, dobbiamo fare i conti con una nuova prossimità, un nuovo modo di rapporto. Quali sono le conseguenze a livello individuale? L’informazione nell’era elettrica distrugge le tradizionali separazioni tra ruoli, competenze e professioni. L’era dell’automazione riduce le distanze. La specializzazione tipica dell’era del libro viene meno. Oggi un lavoratore deve possedere competenze diversificate. Oggi viviamo in un mondo iper-connesso”, afferma McLuhan prima dell’avvento di internet e degli smartphone.
A proposito di competenze diversificate e connessioni che (non) ti aspetti, nel 1966, il teorico canadese afferma: “L’accelerazione del mondo produce fenomeni interessanti: ciò che un tempo era separato è ora collegato. La politica sta diventando spettacolo, la politica spettacolo. Entro quindici anni, un attore sarà eletto presidente degli Stati Uniti”. Per chi non lo ricordasse, nel 1981 Ronald Reagan diventa presidente degli Stati Uniti d’America.
I revival (1977)
Durante un’intervista televisiva, McLuhan dichiara, spiazzando, come d’uopo, il suo interlocutore: “In questo momento noi siamo in onda. Ed essendo in onda, non abbiamo un corpo fisico. Quando siamo al telefono o alla radio o in tv non abbiamo un corpo fisico. Siamo semplicemente un’immagine in onda. Quando si è in onda, non siamo un essere umano, ma un entità scorporata. In quanto entità scorporata, ci rapportiamo al mondo in modo assai differente. Ritengo che questo rappresenti uno degli effetti più importanti dell’era elettrica. L’era elettrica ha privato gli individui della loro identità privata [...]. Oggi ognuno tende ad assorbire la propria identità con quella degli altri alla velocità della luce [...]. E uno degli effetti più immediati della perdita dell’identità è la nostalgia. Il che spiega perché i revival siano così frequenti oggi. Il revival dell’abbigliamento, del ballo, della musica, degli spettacoli televisivi. Noi viviamo nell’era del revival”. Chi volesse approfondire questo tema, specie in relazione alla musica pop, può leggere il saggio di Simon Reynolds, Retromania.
Coda: Il rap di McLuhan
La pubblicazione di The Medium is the Massage nel 1967 è accompagnata da un LP distribuito da CBS records. Si tratta di un collage vocale che “vivifica” alcune parti del libro, un cut-up sonoro che affianca McLuhan, il professore e l’MC, ad altri personaggi – The Old Man, The Hippie Chick, The Irishman, Mom, The Little Girl, e così via. McLuhanismi mixati a brevi interludi musicali, pop, jazz e psichedelici. Abbandona gli scratch ante litteram. Dopo tutto, McLuhan ha inventato l’hip hop. Nell’aprile 2011, il metaLAB della Harvard University, una task force di accademici digitali capitanati da Jeffrey Schnapp, hanno re-mixato e illustrato quel pezzo, trasportandolo in rete.Lo ricordo: McLuhan non va semplicemente letto. McLuhan va ascoltato. Recitato. Cantato. Ballato." (Matteo BIttanti, LINK, Novembre 2011)
Link: LINK Mono: Marshall McLuhan
Link: Il KIndle di McLuhan