L'editore Luiss University Press ha appena ristampato Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell'era dello spettacolo (1985), opera seminale dello studioso americano Neil Postman, discepolo di Marshall McLuhan e uno dei fondatori di un approccio noto come media ecology. A lungo introvabile in Italia - era stato pubblicato da Marsilio negli anni Ottanta, salvo poi scomparire dalle librerie come spesso succede per le opere troppo avanti sui tempi - "incomprese", si dice in questi casi - il testo rappresenta una cartina di tornasole della contemporaneità, per usare un altro cliché. La nuova edizione di Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell'era dello spettacolo è accompagnato dalle seguenti considerazioni:
C’è poco da ridere
Matteo Bittanti
Profetico, destabilizzante e avvincente come un romanzo distopico, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo è un manuale di sopravvivenza in un mondo tecnologicamente avanzato, ma profondamente irrazionale. Pubblicato a metà degli anni Ottanta, resta una delle diagnosi più efficaci e persuasive sugli effetti socio-culturali dei media. La sua influenza trascende la sfera accademica: celebrato dal creatore dei Simpsons, Matt Groening, Divertirsi da morire ha ispirato Roger Waters dei Pink Floyd, che nel 1992 ha realizzato l'album solista Amused to Death. Altri illustri estimatori che lo hanno inserito nelle loro personali classifiche includono artisti, ingegneri e giornalisti come Yoko Ono, Alan Kay e Tom Brokaw. L’eclettismo della fanbase è significativo.
Nella dialettica che vede Gli strumenti del comunicare (Marshall McLuhan, 1964) svolgere il ruolo della tesi e La società dello spettacolo (Guy Debord, 1967) quello dell’antitesi, Divertirsi da morire rappresenta una sintesi compiuta. Postman riprende e sviluppa l’approccio ecologico promosso dal teorico canadese, campionando e remixando il concetto feticcio “il medium è il messaggio” attraverso la formula del “medium come metafora”. La sua tesi è che una tecnologia non solo presenta una specifica progettualità, ma genera una determinata epistemologia, un modo di vedere e di comprendere la realtà. Come il linguaggio, ogni medium produce una peculiare weltanschauung che si presenta come universale. Ne consegue che l’affermazione sociale e culturale di un medium non ha implicazioni squisitamente economiche e tecniche, bensì ontologiche ed ermeneutiche: lungi dal riprodurre meccanicamente la realtà, la produce tout court e insieme fabbrica le modalità attraverso la quale possiamo conoscerla. I media definiscono le nostre percezioni, organizzano le nostre esperienze e reazioni emotive, condizionando gesti, azioni e reazioni emotive e collettive. In breve, confezionano e insieme convalidano un mondo possibile, rendendolo leggibile e coeso. Così intesa, la “realtà” si riduce a un immenso accumulo di pseudo eventi e di eventi mediali. Nel momento in cui il primato socio-culturale della stampa entra in crisi e s’impone il modello audiovisivo, la realtà (percepita) cambia e, con essa, la società nel suo complesso. Laddove la fruizione di un testo scritto presuppone la capacità di astrazione e l’applicazione di un pensiero logico, richiede un coinvolgimento cognitivo intenso, dialettico, profondo ed esige un’attenzione prolungata e sostenuta, la televisione - paradigma dell'audiovisivo pre-digitale - riduce ogni contenuto a un flusso inarrestabile di immagini in movimento, montate in rapida successione, secondo una logica tutt’altro che trasparente. Nel capitolo “L’era dello spettacolo”, Postman scrive:
Quello che la gente guarda e ama guardare sono immagini in movimento. Milioni di immagini di breve durata e con rapidi cambi di inquadratura. È nella natura del mezzo il fatto di sopprimere il contenuto delle idee per far posto all’interesse visivo, cioè per far posto a valori spettacolari.
Infatti, la televisione in quanto medium privilegia una forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotainment, amusement – introducendo un’estetica spettacolare. Promuove contenuti visuali, leggeri, rapidi, vacui, frammentati, mercificati, appositamente progettati per divertire, stimolare e distrarre. Pertanto, una società dominata dalla televisione è formata da individui superficiali, distratti, incapaci di sviluppare un pensiero critico. Postman chiarisce che il problema non è tanto il divertimento di per sé quanto il contesto: dato che la televisione presenta tutti i contenuti, anche quelli importanti, in modo disimpegnato e banale, essa finisce inevitabilmente per banalizzarli. Nella misura in cui la televisione acquista una centralità all’interno del mediascape americano, tutti gli altri mezzi di comunicazione tendono a conformarsi ai suoi pregiudizi, idiosincrasie formali e modalità di rappresentazione. “Quello che deploro non è che la televisione diverte, ma che ha fatto del divertimento il modello naturale per rappresentare ogni esperienza [...] Il problema non è che la televisione ci regali del divertimento, è che tutti gli argomenti siano presentati come divertimento” conclude Postman.
Quando un’intera società applica pedissequamente il filtro del divertimento per valutare e consumare ogni fenomeno, discorso e situazione, le conseguenze sono tutt’altro che fun. Nessuna sorpresa se, nel 1980, un cowboy hollywoodiano che recita il ruolo del paladino della legge si aggiudica la presidenza. La travolgente vittoria di Ronald Reagan su Jimmy Carter appare meno sorprendente se si considera che sin dagli anni Sessanta, la televisione aveva ridefinito la natura stessa della politica, come attesta il trionfo del giovane abbronzato e telegenico John F. Kennedy sul veterano, ma sudaticcio ed emaciato Richard Nixon nel primo dibattito trasmesso in diretta dalla CBS. Analogamente, il fatto che nel 2016 una star dei reality TV show abbia strappato la Casa Bianca alle dinastie dominanti (i Clinton, i Bush...), ha stupito solo coloro che ignoravano il vaticinio dei media studies. Se il trend proseguirà secondo la traiettoria delineata da Postman, è plausibile ipotizzare che le future elezioni presidenziali vedranno trionfare un influencer di YouTube o Twitch (Ninja?), un podcaster carismatico (Joe Rogan?), una star di TikTok (Charli D’Amelio?) o un super complottista (Alex Jones?).
Secondo Postman, il rischio più grave che corrono le società tecnologicamente più avanzate è, per l’appunto, morire di divertimento. La storia più recente – segnata dai capricci di presidenti meme e politici troll, dagli sproloqui di edgelord multimilionari e di lifestyle guru – gli dà ragione. Sfortunatamenrte, quello di Postman è il triste destino del grillo parlante – il personaggio favolistico, non il comico-politico, un altro epifenomeno di una profonda crisi culturale. Non intendo affermare che la lunga, inspiegabile, scellerata assenza dalle librerie italiane di questo libro sia stata la ragione principale per cui la maggioranza del Belpaese abbia sostenuto con entusiasmo il regime catodico del palazzinaro di Arcore nonché tollerato un’intera classe politica allevata nei pollami del talk show, ma non ho dubbi che le considerazioni del teorico americano sarebbero state di conforto alla resistenza partigiana nella Repubblica fondata sulla televisione. Tra l’altro, il fatto che la biscia berlusconiana di TeleMilano abbia fatto il suo ingresso sulle scene nello stesso anno in cui Guy Debord completava l’adattamento cinematografico della Società dello Spettacolo – il 1973 – è una di quelle coincidenze sulla quale i cospirazionisti più sgamati potrebbero costruire un’intera cosmogonia. Invece di concentrarsi sui chemtrails, bisognerebbe interrogarsi sugli effetti narcotizzanti dell’etere.
Laddove Jean Baudrillard citava Disneyland come paradigma di una società americana sempre più simulacrale e, per estensione, delle società occidentali tecnologicamente “avanzate”, Postman indica Las Vegas – la capitale del gioco, del vizio, dell’azzardo e dello spettacolo 24/7 – come matrice e benchmark. Nell’era trumpiana – tutt’altro che conclusa dopo la sconfitta dell’altro palazzinaro alle presidenziali del 2020 – Las Vegas è ovunque: è uno stato mentale, una condizione esistenziale. Se il neoliberismo ha subordinato ogni ambito dell’esistenza all’economia, alla transazione e al mercato, la televisione ha uniformato tutte le espressioni comunicative alla logica dell’intrattenimento. Idee complesse e articolate sono ridotte a meri slogan e immagini virali, il politico è (letteralmente) comico – in Italia come in Ucraina – la telegenia assurge a valore assoluto, una conversazione degenera rapidamente in shitstorm e il LARPing è indistinguibile da un’insurrezione. Il casinò è, soprattutto, casino. Postman afferma che c’è un tempo per il divertimento e un tempo per la serietà, ma poiché i media e la tecnologia hanno amplificato infinitamente la nostra capacità di divertirci, abbiamo perso ogni capacità di distinguere le due cose. Dunque, tutto è varietà, inteso come genere televisivo. Al decoro, al rispetto, all’expertise, alla competenza e al rigore si è sostituita la risata preregistrata, gli applausi a comando, il sorriso del presentatore. Concepite come parodie, pellicole come Idiocracy (Mike Judge, 2006) o Southland Tales. Così finisce il mondo (Richard Kelly, 2006) andrebbero oggi riclassificate come documentari.
Pensato originariamente come intervento per la Fiera del libro di Francoforte nel 1984, Divertirsi da morire invita il lettore a prendere atto che la società contemporanea ha assunto connotati distopici. Il modello di riferimento non è tanto il 1984 (1949) di George Orwell quanto Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley. Il primo presuppone una logica coercitiva e punitiva: attraverso una sorveglianza costante, una propaganda totale e manipolazione psicologica, il governo controlla l’intera popolazione e reprime il dissenso con violenza. Tuttavia, la distopia huxleyana è assai più insidiosa ed efficace, perché seducente e divertente, come ci ricorda anche il filosofo di origine coreana Byung-Chul Han. Nella società descritta in 1984, c’è una sola Verità, quella del Grande Fratello. Nel Mondo nuovo, mille verità proliferano in forma virale, con il risultato che la nozione stessa di evidenza perde ogni significato. Oggi non contano più fatti, bensì ciò in cui uno “crede” o “sente”. Nella società descritta da Huxley, la tecnologia in tutte le sue manifestazioni esercita un controllo totale sulla cultura, sulla politica e sull’economia. Il futuro finzionale è il nostro presente, amministrato dall'élite del Big Tech (Musk, Bezos, Zuckerberg, Cook, Dorsey...), adorati come demiurghi dalle masse. Nel capitolo intitolato “La profezia di Huxley”, Postman scrive:
Quello che Huxley insegna è che, nell’era della tecnologia avanzata, la devastazione spirituale viene più probabilmente da un nemico col sorriso sulle labbra che da uno il cui comportamento ispira sospetto e odio. [...] Quando la popolazione è distratta da cose superficiali, quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso si trasforma in un balbettio infantile, quando, in breve, un intero popolo si trasforma in spettatore, e ogni affare pubblico in vaudeville, allora la nazione è in pericolo; la morte della cultura è chiaramente una possibilità.
I fenomeni descritti da Postman negli anni Ottanta non sono più esclusivi della società americana: sono diventati globali. Per dirla con Megan Garber, siamo tutti sottomessi alla “tirannia del LOL”. Se la televisione ha creato un mondo in cui niente è vero e tutto è possibile, i social media hanno dato il colpo di grazia. Postman scrive che gli americani hanno smesso di comunicare, limitandosi ad “intrattenersi” reciprocamente. La natura eminentemente performativa della comunicazione in rete – accompagnata dal culto della personalità e della completa mercificazione del sé – è ben nota a chiunque abbia una minima familiarità con Twitter, Instagram e Facebook, come suggerisce Jia Tolentino in Trick Mirror:
Nel 1985, Neil Postman osservava che il desiderio americano di intrattenimento costante era diventato tossico, che la televisione aveva inaugurato una “vasta discesa nella banalità”. La differenza è che oggi non non c’è altro posto dove andare. Il capitalismo non ha altri posti da coltivare se non l’ego. Tutto viene cannibalizzato, non solo beni e lavoro, ma personalità, relazioni e attenzione. Il passo successivo è la completa identificazione con il mercato online, l’inseparabilità fisica e spirituale da internet: un incubo che sta già bussando alla porta.
La conclusione di Postman – “Una società fondata sulla televisione è una società barbarica” – che il giovane Umberto Eco avrebbe liquidato come “apocalittica” – oggi appare così ovvia da non suscitare alcuna obiezione. Lungi dall’essere nichilista o fatalista, il messaggio dello studioso americano è intrinsecamente vitale, umanistico e positivo. Studiare i media significa innanzitutto interrogarsi sulle loro implicazioni etiche. In altre parole, ogni volta che ci confrontiamo con una tecnologia, emergente o consolidata, dobbiamo chiederci: Che cosa guadagniamo e/o perdiamo usando un certo medium, rispetto a un altro? Quali effetti produce a livello individuale e sociale? La collettività beneficia o meno usando tale mezzo?
Nel contesto formativo attuale – specie quello accademico – solo un numero ridotto di “eretici” si sognerebbe di porre agli studenti questo tipo di domande.
Oggi, l’analisi dei media si riduce al funzionalismo applicato. I corsi che vanno per la maggiore sono “Tecniche di massimizzazione del SEO” e “Strategie di gamification applicata”.
Non a caso, dopo la svolta neoliberista, l’università è diventata eminentemente televisiva: ha interiorizzato, consacrato e promosso le medesime logiche del mezzo criticato da Postman. Faccio lezione in un'aula intitolata a Mike Bongiorno: siamo alla mediastasi. In una situazione dominata dal paradigma tecnocratico e dal “libero mercato”, Divertirsi da morire rappresenta un’anomalia tanto anacronistica quanto preziosa.
Matteo Bittanti
LINK: Diversirsi da morire. Il discorso pubblico nell'era dello spettacolo