Una versione più sintetica di questo saggio è stata pubblicata sul nuovo numero di WIRED in edicola ed è tratta da un progetto in corso d'opera.
La nuova società videoludica: giocare a lavorare
Matteo Bittanti
Job Simulator (Owlchemy Labs, 2016). Versione per PlayStation VR.
In cosa consiste l’appeal dei videogiochi? Cosa spinge milioni di persone a passare intere giornate a manipolare pupazzi digitali per mezzo di ridicole interfacce su schermi luminosi? A vivere esistenze alternative in mondi virtuali?
La risposta è semplice: il divertimento elettronico offre, in forma vicaria, soddisfazioni psicologiche precluse al precariato nella cosiddetta realtà. Panacea virtuale delle crescenti ineguaglianze, il videogioco è un efficace dispositivo di governo, inteso in senso foucaultiano (1). Esso opera infatti attraverso la logica della gratificazione e della ricompensa, elargendo stimoli psicologici positivi. Titilla e seduce il soggetto, anziché penalizzarlo e paralizzarlo. Laddove la realtà delude, il videogioco illude, definendo le priorità del giocatore, protocollandone i desideri, plasmando le sue ambizioni. Se nel quotidiano le nostre opzioni sono opache, limitate e predefinite, in un videogioco tutto è possibile: la ludologica è trasparente.
Utopia meritocratica che non trova riscontri nella dimensione concreta (IRL), la simulazione ludica promuove l’ethos neoliberista che celebra l’imprenditorialità coatta, l’auto-miglioramento compulsivo, il branding della personalità, la vetrinizzazione del sé (2) e la totale indifferenza nei confronti del contesto sociale ed ambientale. La progressiva smaterializzazione della classe media nelle nazioni occidentali (3), la stagnante situazione economica che ha accentuato l’espansione incontrollata del precariato (4), le false promesse della “sharing economy” (5), la progressiva privatizzazione della sfera pubblica, il disincanto nei confronti di una classe politica giudicata corrotta, compromessa e inaffidabile, sono alcuni dei fattori che hanno contribuito al progressivo disinteresse per la “vita vissuta” e per “l’impegno sul campo” da parte di una fetta consistente di individui. Un epifenomeno di questo trend di lungo periodo è la decisione di milioni di giovani delle nazioni tecnologicamente più avanzate di abbandonare la ricerca di un’occupazione per dedicarsi a tempo pieno all’attività videoludica. La difficoltà, se non impossibilità, di ottenere e mantenere una posizione dignitosamente remunerata in un contesto contraddistinto da crescenti squilibri spiega il progressivo esodo nel mondo dei simulacri e delle simulazioni. Questo fenomeno si colloca al centro della riflessione di studiosi americani di differenti discipline e orientamenti ideologici. Tra questi spicca Erik Hurst, studioso e docente di Economia presso l’Università di Chicago, che nell’autunno del 2016 ha pubblicato un breve saggio intitolato “Video Killed The Radio Star” sulle pagine della Chicago Booth Review (6).
Hurst fa notare che nel 2015, il 22% dei giovani statunitensi disoccupati di età compresa tra i 21 e i 30 anni senza un titolo di studio accademico ha de facto rinunciato a cercare un’occupazione. Di questi, il 51% vive con i genitori o parenti – che forniscono le risorse economiche necessarie al loro sostentamento – passando il tempo a videogiocare. La percentuale sale al 70% se si considera la fascia dei ventenni, a conferma che il fenomeno dei cosiddetti “bamboccioni” è tutto fuorché una peculiarità italica (7). Tra il 2000 e il 2015, il tasso di occupazione della popolazione americana di età compresa tra i 21-55 anni senza una laurea è diminuito di 7.5 punti percentuali, un declino che Hurst definisce “epocale”. Nel 2015, solo il 77% del segmento demografico considerato era occupato (nel 2000 era l’84%), una percentuale tra le più basse delle trentaquattro nazioni più avanzate considerate. Un secondo aspetto rilevante è che il declino - che ha avuto inizio prima della crisi del 2008 - prosegue tutt’oggi, nell'era della presunta ripresa. Questi dati sono stati confermati dal Consiglio dei Consulenti Economici (8) e dall’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro (9) del governo americano che hanno quantificato in dieci milioni di individui - per lo più singoli appartenenti a classi sociali economicamente svantaggiate e distribuiti tra le varie etnie (bianchi, neri e latini) - gli adulti estranei alla forza lavoro e tuttavia non conteggiati nelle statistiche ufficiali perché non si rivolgono agli uffici di disoccupazione per trovare un lavoro né per richiedere un sussidio economico. L’ennesimo surplus di popolazione, “ridondante” nel contesto del tardo capitalismo. Il fenomeno dei cosiddetti “inattivi economici” è stato recentemente discusso anche dall’economista conservatore Nicholas Eberstadt nel libro Men Without Work: America's Invisible Crisis (Templeton Press, 2016), che definisce la situazione attuale molto “più seria” rispetto alla Grande Depressione negli anni Trenta (10). Dal 1948 a oggi, la percentuale di americani di età superiore ai vent’anni senza lavoro retribuito è più che raddoppiata, raggiungendo il 32%. Secondo Eberstadt, questa “bizzarra e radicale trasformazione che ha introdotto uno stile di vita alternativo nella ricerca maschile di un’occupazione” è in gran parte volontaria, dato che è tollerata dal sistema assistenziale vigente. Da buon conservatore, Eberstadt cita un secondo fenomeno correlato - il declino del matrimonio - come sintomo del processo di infantilizzazione della società americana.
Hurst sottolinea un processo assai curioso: al crollo dell’occupazione lavorativa ha fatto da contraltare l’aumento esponenziale delle attività ricreative. Nello specifico, il 75% del tempo precedentemente dedicato al lavoro retribuito è stato rimpiazzato dalle azioni simboliche performate in spazi elettronici. Detto altrimenti, videogiochi. Il trend discusso da Hurst, Eberstadt e da altri studiosi non va tuttavia confuso con il fenomeno sociale degli hikikomori, i giovani nipponici che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, isolandosi nei propri appartamenti in compagnia di manga, anime e videogame (11). Questa patologia contemporanea è infatti riconducibile a fattori specifici della società giapponese, quali l’assenza di una figura paterna forte, l’eccessiva protettività materna nonchè la pressione verso l’autorealizzazione e il successo, a cui l’individuo è sottoposto sin dall’adolescenza oppure a episodi di bullismo e abusi da parte dei coetanei. Lo scenario americano presenta caratteristiche molto differenti. L’incremento del consumo videoludico da parte dei giovani ha tra le principali motivazioni una profonda disillusione circa le reali prospettive lavorative nell’era post-industriale e della globalizzazione. Tra il 2004 e il 2007, prima dell’ultima recessione, i giovani disoccupati senza un titolo di studio universitario spendevano in media 3-4 ore alla settimana a videogiocare. Tra il 2011 e il 2014, la fruizione videoludica ha raggiunto le 8.6 ore. Con Destiny, League of Legends, Overwatch, Call of Duty e FIFA Soccer, i giovani ottengono quelle gratificazioni – puramente simboliche, s’intende – a loro precluse nella vita vissuta. Senza un velo di ironia, Hurst fa notare che il livello di soddisfazione dei videogiocatori senza lavoro è più alto di quello dei loro coetanei salariati (12).
Mentre le classi economicamente svantaggiate sono afflitte da livelli crescenti di unemployment, ciò che resta della più acculturata classe media si trova a fare i conti con fenomeni nondimeno frustranti, tra cui la persistente sottoccupazione (underemployment), termine che indica l’utilizzazione parziale delle forze di lavoro disponibili all’interno del sistema economico; l’istituzionalizzazione degli stage non retribuiti, l’appiattimento di compensi, stipendi e salari nonché la proliferazione di pratiche lavorative infami come quelle proposte da Uber, Foodora e dagli altri “innovatori” della cosiddetta gig economy celebrate dai fondamentalisti tecnologici di WIRED. Anche in questo caso, a fronte di condizioni abbiette a livello del quotidiano fa da contraltare un’attività virtuale – dai videogiochi ai social media – sempre più intensa, a conferma che le nuove tecnologie svolgono una funzione essenzialmente compensativa. Nello specifico, i videogiochi propongono delle narrazioni interattive dotate di senso, a differenza della cosiddetta realtà, assegnando all’utente un ruolo da protagonista anziché di vittima di arcani meccanismi sociali. Nel contesto videoludico, le regole sono condivise e rispettate dai partecipanti, laddove la “vita vissuta”, modellata su una logica plutocratica, legittima favoritismi, corruzione e privilegi. La realtà virtuale rappresenta l'antitesi meritocratica della realtà esperita quotidianamente.
Non a caso, Palmer Luckey, fondatore ed ex-CEO di Oculus Rift nonché sostenitore dei troll pro-Donald Trump e dell’alt-right, ha dichiarato più volte che la funzione primaria della realtà virtuale è di offrire alle masse un surrogato di esperienze che spaziano dal turismo alla cultura ormai appannaggio di un’élite di privilegiati. La finalità esplicita di questa tecnologia è il controllo sociale. Curiosamente, questo scenario ricorda la premessa di Ready Player One (2011), il best-seller di Ernest Cline prossimo al debutto sul grande schermo, che descrive una società in cui i poveri, socialmente marginalizzati e ammassati in squallide roulotte, passano il loro tempo immersi in un mondo virtuale persistente chiamato Oasis, una versione aggiornata dei feelies del romanzo di Huxley, Il mondo nuovo.
In Europa, la “disoccupazione a lungo termine” (leggi: permanente) è in crescita. In Italia, secondo l’ISTAT, tra il 2004 e il 2017 il tasso di occupazione dei giovani di età compresa tra i 15-24enni è sceso dal 28,2% al 17,2%. In termini assoluti, i giovani lavoratori sono scesi da un milione 697mila a un milione e 13mila. Il segmento demografico dei 25-34enni occupati ha fatto segnare una decrescita netta: da sei milioni e 4mila (marzo 2014) a quattro milioni e 77mila (gennaio 2017). Il tasso di disoccupazione è del 12%, ma quella giovanile sfiora il 40%, la percentuale più alta in Europa insieme a Grecia e Spagna. Dal 2008 ad oggi la percentuale di chi ha tra i 25 ed i 29 anni ed ha un lavoro è calata di dodici punti. L’Italia è l’unica tra i principali Paesi Ocse ad avere una percentuale di occupati superiore nella fascia di età 15-64 rispetto alla fascia 25-29. Una conferma che, nel cosiddetto Belpaese più che in altre parti del mondo, gli effetti più deleteri della crisi affliggono i giovani. Un fattore aggravante è il crollo della formazione: nel 2015, solo il 26% degli italiani detiene una Laurea di primo livello. Stando a Eurostat, si tratta della peggiore performance a livello europeo (13). Non solo: l’Italia fa registrare un altissimo tasso di abbandono scolastico: il 14% del segmento demografico compreso tra i 18 e i 24 anni non ha nemmeno completato la scuola superiore. I disoccupati espliciti sono circa 3 milioni a cui si sommano circa 6 milioni di inoccupati. Nel Belpaese, l’età media dei videogiocatori è 35 anni (14). Prima della crisi, i Neet (l'acronimo di Not in education, employment or training indica i giovani che non lavorano, non studiano e non stanno completando un periodo di formazione) rappresentavano il 20% della popolazione italiana di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Nel 2014 sono arrivati al 27,5%. Il 46% di chi appartiene a questa generazione studia, il 26% lavora, gli altri non fanno nulla. Il 15% è classificato come inattivo. In altre parole, ha smesso di cercare un’occupazione. Nel frattempo, in Italia, metà della popolazione fruisce regolarmente i videogiochi (AESVI, 2015).
Gli economisti sono concordi nel prevedere che nei prossimi anni l’automazione ridimensionerà le sempre più limitate possibilità di occupazione umana: algoritmi e robot stanno eliminando molti più lavori di quanto siano in grado di crearne (15). La cosiddetta disoccupazione tecnologica non prevede semplicemente la sostituzione dei lavoratori umani per mezzo di macchine, ma indica anche che una crescita stabile della produttività può essere ottenuta con un numero di lavoratori umani sempre più ridotto. Detto altrimenti, lungi dal liberare l’individuo da obblighi e vincoli, l’high-tech lo sta rendendo inutile, superfluo, ridondante. La scomparsa del lavoro "reale" è accompagnata dal suo ritorno sotto forma di gioco. Non è un caso che uno dei videogame di realtà virtuale più popolari è Job Simulator (Owlchemy Labs, 2016), che ripropone in un contesto di pura simulazione il lucido cinismo del cult Impiegati...male! di Mike Judge. Nell'impossibilità di ottenere un'occupazione “vera”, i giocatori performano attività lavorative assumendo il ruolo del dipendente in un ufficio, di un meccanico, di un responsabile di un drugstore e così via. In breve, oggi si gioca a lavorare. Non va tuttavia dimenticato che, da sempre, tutti videogiochi sono processi simbolici di lavoro, appena dissimulati e non retribuiti economicamente (16). Non a caso, nel suo recente libro Irresistible: The Rise of Addictive Technology and the Business of Keeping Us Hooked (Penguin Press, 2017), Adam Alter, Professore Associato alla Stern School of Business della New York University, spiega che i milioni di appassionati del fantasy online World of Warcraft considerano le ore investite a formare clan per cacciare draghi e completare quest un’occupazione a tempo pieno (17). In effetti, per un numero crescente di individui, il videogioco è diventato una professione.
Le conclusioni di Hurst contrastano con le ottimistiche previsioni di Vilém Flusser formulate a metà degli anni Ottanta. Nel seminale Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo (Fazi Editore, 2009), il filosofo dei media preconizzava che l’era telematica avrebbe liberato l’uomo dal giogo del lavoro, trasformando ogni interazione in un gioco. Parlando del futuro (il nostro presente) Flusser citava corpi atrofizzati, dipendenza schermica e giochi di polpastrelli:
Gli uomini staranno, ognuno per sé in celle, giocheranno con i polpastrelli sulle tastiere, guarderanno fissi piccolissimi schermi, riceveranno immagini, le modificheranno e le trasmetteranno. Alle loro spalle, i robot porteranno le cose per nutrire i loro corpi atrofizzati e farli crescere. Attraverso i loro polpastrelli, gli uomini saranno collegati gli uni agli altri e così costruiranno una rete dialogica, un supercervello cosmico, la cui funzione sarà di rendere in immagini, attraverso calcoli e computazioni, le situazioni inverosimili, di provocare informazioni, catastrofi.” (p. 223)
Nella “società degli homines ludentes” scriveva Flusser, “per gli esseri umani si aprirebbero orizzonti inaspettati” (p. 117). Le tecnologie promettono di “emancipare l’uomo dal lavoro e liberarlo per un gioco con tutti gli altri uomini; un gioco nel quale possono venire prodotte sempre nuove informazioni e vissute sempre nuove avventure” (ibidem). L’attività ludica è collettiva, perché l’uomo che gioca è innanzitutto un animale sociale: l’homo ludens “si aprirà al gioco con tutti gli altri, per mezzo degli apparati [...] si ritroverà nel gioco, concretizzerà se stesso nel gioco. [...] Il futuro uomo ludico si ritroverà, per mezzo del gioco creativo, negli altri” (p. 144). Si tratta di un gioco fine a se stesso, non orientato al profitto: “Nella società che gioca con la ‘telematica’ non ci sarà, a differenza di tutte le società precedenti, alcun guadagno.” (pp. 215-216) Questo gioco “metodico”, “intenzionale”, non strumentale, è l’attività prediletta degli uomini nella società telematica. Scrive Flusser:
La società come rete cerebrale dialogica deve essere vista come un gioco di società e le informazioni che vengono prodotte in questo gioco come mosse di un tipo di gioco di scacchi. La natura produce informazioni attraverso i dadi, la società le produce intenzionalmente; e ciò significa: grazie a una strategia di gioco, metodicamente. L’unica differenza è che il gioco di società, rispetto al gioco degli scacchi, è un “gioco aperto”: può modificare le sue regole nel corso del gioco. (p. 129)
Byung-Chul Han è scettico, ma per ragioni assai differenti rispetto a quelle di Hurst. Nel suo trattato Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo, 2013), il filosofo di origini coreane afferma che videogiochi, smartphone e social media non hanno inaugurato l’era dell’ozio creativo preconizzata da Flusser, bensì imposto il principio della prestazione persistente, una forma di auto-sfruttamento per cui il soggetto s'illude di giocare, ma lavora a tempo pieno, senza per altro godere di una compensazione economica adeguata – e in molti casi, senza compensazione tout court – per le grandi corporation dell’high-tech, da Google a Facebook, da Electronic Arts ad Activision. Secondo Han, Il principio della prestazione “toglie al gioco ogni elemento ludico e lo trasforma ancora in lavoro. Il giocatore si dopa e si sfrutta fino alla sfinimento. L’era digitale non è l’epoca dell’ozio, bensì della prestazione: contrariamente alla visione di Flusser, ‘l’uomo che gioca con le dita, senza mani’ non è un homo ludens. [...] L’utopia flusseriana del gioco e dell’ozio si rivela una distopia della prestazione e dello sfruttamento.” (p. 49). Nel saggio successivo, Psicopolitica (2016), Han ribadisce che “La ludicizzazione del lavoro sfrutta l’homo ludens; ci si sottomette al rapporto di dominio mentre si gioca.” (p.60) Inoltre, “La ludicizzazione come mezzo di produzione sfrutta il potenziale emancipativo del gioco; il gioco rende possibile un uso delle cose completamente diverso, lo libera dalla teologia e dalla teleologia del capitale.” (pp. 63-64). (18)
Nel ventunesimo secolo, il lavoro retribuito, stabile e determinato è diventato una di quelle fantasie videoludiche – dall’esplorazione di lande incantate con troll e draghi alla partecipazione a conflitti intergalattici contro spietate razze aliene – che forniscono al giovane maschio (in)castrato nel regime neoliberista e tecnocratico modelli narrativi puramente aspirazionali nonché scenari di realizzazione individuale. Nel momento in cui l'impatto “concreto” del soggetto si fa sempre più marginale e insignificante - in breve, virtuale - non resta che giocare.
Come uscire dall'impasse? Lo studioso Domenico De Masi (2017a, 2017b) propone un'interessante soluzione: lavorare gratis. Scrive De Masi:
Se ognuno dei 23 milioni di lavoratori occupati italiani lavorassero le stesse ore del suo collega francese, ci sarebbe lavoro per 4,4 milioni di disoccupati; se lavorasse con lo stesso orario dei tedeschi, sarebbero disponibili 6,6 milioni di posti di lavoro. Siccome i disoccupati in Italia sono 3 milioni, potremmo azzerare la nostra disoccupazione e potremmo offrire lavoro a milioni di immigrati. [...] Questa semplice "utopia" della riduzione dell'orario, benché sorretta dalla matematica e dal buon senso, non si realizza a livello nazionale perché i lavoratori occupati e i loro sindacati non sono disposti a cedere neppure un decimo del loro lavoro ai disoccupati, ignorando i vantaggi che ne trarrebbero essi stessi (disponendo di un maggiore tempo libero), l'azienda (guadagnando maggiore produttività), la società tutta (evitando emarginazioni e conflitti). Dunque il problema è: cosa possono fare i 3 milioni di disoccupati per convincere i 23 milioni di occupati a cedere un decimo del loro lavoro? A mio avviso l'unica azione possibile, efficace e non violenta, è mettersi in concorrenza con gli occupati lavorando gratis. (2017a, p.19, enfasi aggiunta)
Ebbene, i videogiocatori - che sotto molti aspetti rappresentano una vera e propria avanguardia sociale - lavorano gratis, da anni. E continueranno a lavorare gratis. I giocatori, infatti, giocano a lavorare.
NOTE
1. In Che cos’è un dispositivo? (Nottetempo, 2006), Giorgio Agamben riprende ed espande le teorie di Michel Foucault, definendo un dispositivo “Qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli essere viventi.” (p.22)
2. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Milano, 2007.
3. Cfr. Rakesh Kochhar, “Class Fortunes in Western Europe”, Pew Research Center, 24 aprile 2017. URL
4. Cfr. Guy Standing, Precariato. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna, 2012. Nel 2015 nei Paesi Ocse si contano 40 milioni di Neet. Sono la punta dell'iceberg di crisi perdurante che, come sottolinea l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico nel suo rapporto 2016 “Society at a glance”, affligge soprattutto i giovani. È infatti nella fascia di età tra i 15 ed i 29 anni che si concentrano i tassi più alti di disoccupazione. E anche chi lavora ha maggiori probabilità di farlo sulla base di un contratto a tempo determinato. In Italia, l’aumento del precariato giovanile è iniziato nel 2003, in coincidenza con l’entrata in vigore della legge Biagi e dell’introduzione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Con lo scoppio della crisi nel 2008, è aumentato in modo significativo.
5. Cfr. Nick Smrcek, Platform Capitalism, Polity, New York, 2015.
6. Cfr. Erik Hurst, “Video killed the radio star. How games, phones, and other tech innovations are changing the labor force.”, Chicago Booth Review, 1 settembre 2016. URL. L’articolo è una trascrizione del discorso di fine anno pronunciato dallo stesso Hurst ai laureati di economia dell’Università di Chicago.
7. Al contrario, è assai popolare in Giappone, dove è stata coniata l’espressione parasaito shinguru (“singoli parassiti”, specie tra le donne) e in Brasile, dove il termine usato è Paitrocínio. Negli Stati Uniti si parla invece di basement-dweller, ovvero dei “residenti dello scantinato”, a cui accenna anche Hurst nel suo discorso.
8. Cfr. URL
9. Cfr. URL
10. La critica dell’economista è diretta allo logica assistenziale del governo alle classi sociali più svantaggiate, un tema caro ai repubblicani e ai conservatori.
11. Cfr. Carla Ricci, Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, Franco Angeli, Roma, 2016; Giulia Sagliocco, Hikikomori e adolescenza. Fenomenologia dell'autoreclusione, Mimesis, Milano, 2010.
12. Per Hurst, si tratta tuttavia di una contentezza temporanea. L’economista indica prospettive tragiche a lungo termine per i giocatori incalliti e una vita caratterizzata dall’instabilità finanziaria, l’uso di sostanze stupefacenti e un livello di suicidio più alto rispetto agli occupati. Cfr. Hurst, 2017.
13. Cfr. Eurostat, “Educational attainment statistics”, giugno 2016. URL
14. Per lo meno da quanto si evince dal report annuale pubblicato sul caotico, disordinato sito dell’Associazione Editori e Sviluppatori di Videogiochi Italiani. Non è infatti facile orientarsi nel sito di AESVI, che presenta intere sezioni obsolete (gli ultimi aggiornamenti risalgono al 2003). Tuttavia, con un minimo di perseveranza, si può scoprire che, stando all'ultima ricerca di mercato sul comparto videoludico locale, “Nel 2015, sono più di 25 milioni i videogiocatori in Italia. Si tratta del 49,7% della popolazione italiana di età superiore a 14 anni, equamente distribuito tra uomini (50%) e donne (50%). La distribuzione per fasce di età vede un'ampia diffusione dei videogiocatori in tutte le classi fino ai 54 anni, con significative concentrazioni nelle fasce di età tra i 14 e i 24 anni (19,2% dei videogiocatori rispetto al 12,4% della popolazione italiana), tra i 25 e i 34 anni (18,1% dei videogiocatori rispetto al 13,3% della popolazione italiana) e tra i 35 e i 44 anni (24,3% dei videogiocatori rispetto al 17,7% della popolazione italiana). Cfr. AESVI, “Il mercato dei videogiochi in Italia 2014-2015”, 5 Aprile 2016, URL e URL L'edizione aggiornata, del 2017, presenta statistiche analoghe.
15. A questa conclusione sono giunti, tra gli altri, Carl Benedikt Frey and Michael A. Osborne. Nel loro influente studio “The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?” (2013), i due economisti di Oxford hanno quantificato nel 47% la percentuale delle occupazioni a “rischio automazione” entro la prossima decade. Stando a una recente ricerca dell’International Labour Organization (ILO), oltre 200 milioni di persone saranno senza lavoro nel 2017 e non solo nelle nazioni tecnologicamente avanzate. Cfr: URL
16. Salvo eccezioni, per esempio gli eSports, le competizioni elettroniche che coinvolgono singoli e squadre impegnati in sfide videoludiche dai ricchi montepremi. Come nel caso degli YouTubers, tuttavia, una minoranza si porta a casa la maggior parte dei guadagni, ottenuti grazie alla pubblicità e alle sponsorizzazioni. Inoltre, gli eSports non sono un'attività ludica bensì lavorativa.
17. Nel momento di massimo successo, nel 2010, il fantasy di Blizzard Entertainment ha coinvolto circa 12.5 milioni di utenti disposti a pagare un abbonamento mensile di quindici dollari per partecipare ad avventure online.
18. Sul lato oscuro della ludicizzazione, cfr. Matteo Bittanti e Emanuela Zilio. Oltre il gioco. Per una critica della ludicizzazione urbana, Edizioni Unicopli, Milano, 2016.
BIBLIOGRAFIA
Alter, Adam, The Rise of Addictive Technology and the Business of Keeping Us Hooked, London, Penguin, 2017.
Agamben, Giorgio. Che cos’è un dispositivo?, Roma: Nottetempo, 2006.
Benedikt, Carl Frey e Osborne, Michael A. “The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?”, OMS Working Papers, 18 settembre 2013, URL.
Cline, Ernest. Ready Player One, New York: Random House, 2012.
De Masi, Domenico. Lavoro 2025. Il futuro dell'occupazione (e della disoccupazione). Genova: Marsilio, 2017a.
De Masi, Domenico. Lavorare tutti, lavorare gratis. Perché il futuro è dei disoccupati. Milano, Rizzoli, 2017b.
Han, Byung-Chul Han. Psicopolitica. Roma: Nottetempo, 2016. [2014]
Han, Byung-Chul Han. Nello sciame. Visioni del digitale, Roma: Nottetempo, 2013. [2012]
Hurst, Erik. “Video killed the radio star. How games, phones, and other tech innovations are changing the labor force.”, Chicago Booth Review, 1 settembre 2016. URL.
Huxley, Aldous. Il mondo nuovo e Ritorno al mondo nuovo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1991. [1932]
Flusser, Vilém. Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo, Roma: Fazi, 2009. [1985]