"Com'è noto, l'espressione Game Art indica una forma peculiare di produzione artistica che prevede l'utilizzo del videogame per finalità espressive e critiche. Nella sua forma più concettualmente efficace, la Game Art si ispira e/o si appropria di elementi estetici, iconografici o tecnologici del gioco digitale per la creazione di artefatti di natura analogica (quadri, sculture, installazioni etc.), digitale (videogame, machinima, visualizzazioni, mod etc.), ma anche performance (in-game, in RL, online etc.), interventi e situazioni.
Com'è noto, Eddo Stern è uno dei pionieri della Game Art.
L'espressione game art, per converso, si riferisce alla produzione di asset dei videogame - bozzetti, schizzi, illustrazioni, animazioni etc.- creati nelle fasi di sviluppo di un videogame. Sul piano logistico, consiste nella fase di pre-produzione e presenta corrispettivi in altri settori della creatività industriale, come il cinema. La game art ha finalità essenzialmente strumentali: è funzionale alla realizzazione di un videogame, un prodotto culturale di massa, distribuito attraverso canali retail, di mattoni e digitali. Ergo, non esistee indipendentemente dal videogioco in quanto merce: per tanto, è subordinata a processi produttivi legati alla compravendita di artefatti culturali.
Le produzioni peculiari della Game Art non sono "di massa", ma si rivolgono a una nicchia. Non a caso, i canali distributivi privilegiati per opere che, per loro natura, sono prodotte in edizioni limitate, sono la galleria d'arte e il museo, anziché negozi e centri commerciali. Game Art e game art si rivolgono a tipologie di pubblico nettamente differenti, per quanto alcune sovrapposizioni sono possibili - è lecito supporre che esista, da qualche parte, uno sparuto numero di critici, collezionisti ed appassionati di arte contemporanea che sono anche competenti in materia videoludica. Pochi, anzi, pochissimi. Ma esistono.
La circolazione, fruizione e critica della Game Art non si articola attraverso l'informazione videoludica (riviste, siti, blog etc.). Infatti, Game Art e game art utilizzano media e piattaforme espressive comuni, ma con intenzioni, obiettivi, e linguaggi completamente differenti. Per esempio, nel contesto della game art, il machinima svolge la funzione del trailer, del promo o dello storyboard visivo. Nel caso della Game Art, il machinima è riconducibile alla video arte. La confusione in merito alle differenti tipologie di arte videoludica è riconducibile a fenomeni che spaziano dalla crassa ignoranza di una parte della critica (videoludica e d'arte) alle manovre di gruppi di interesse per i quali l'arte dei videogiochi rappresenta una delle possibili aree da colonizzare e sfruttare. Per questo motivo, la Game Art viene spesso confusa con altre espressioni dell'arte contemporanea come la Digital Art, New Media Art, Interactive Art, Net Art etc. Cosi' come l'apporto della critica dell'arte contemporanea al videogame è relativamente vacuo - dato che la maggior parte dei critici di arte contemporanea hanno una competenza minima in materia videoludica - analogamente, l'apporto della critica videoludica alla Game Art è generalmente fuorviante - dato che la competenza dei critici videoludici in materia di arte contemporanea è, salvo rare eccezioni, minima.
Per chiarire la distinzione tra Game Art e game art è utile ricorrere a qualche esempio. La recente mostra dedicata alla serie videoludica della multinazionale franco-canadese Ubisoft, Assassin's Creed, Art (R)evolution, possiede tutte le marche di riconoscimento della game art. In questo caso, l'evento prevede un committente/sponsor di carattere industriale, il publisher. La mostra costituisce una forma di marketing avanzato, che si appropria di spazi tipici della cultura alta - in questo caso il museo o la biblioteca - per evidenti finalità di promozione. Non guasta che attorno all'evento si sviluppino interessanti ramificazioni didattiche che enfatizzano il potenziale pedagogico del medium rispetto alla sua funzione primaria - l'intrattenimento. Così facendo, il videogame acquista una legittimazione culturale e viene "sdoganato" - termine orripilante, ma frequentemente utilizzato - presso pubblici differenti rispetto al target di riferimento. Le parti coinvolte includono, oltre allo sponsor, anche curatori, giornalisti e pubblico. Si tratta di una situazione win-win, come direbbero gli uomini del marketing. Perché di marketing, appunto, si tratta.
A metà strada tra la game art/concept art e la Game Art in quanto tale troviamo le numerose iniziative della galleria d'arte losangelina iam8bit, che propone mostre dedicate ai videogiochi degli anni Ottanta. Su WIRED abbiamo parlato qualche mese fa dell'esibizione dedicata a Street Fighter, Combo Attack. Anche in questo caso, il publisher figura tra gli sponsor. Non si tratta, tuttavia, di completa e dichiarata committenza. Le opere presentate nella galleria di L.A. non sono bozzetti e illustrazioni create dai dipendenti della software house (e per tanto, di proprietà della corporation) bensì quadri, illustrazioni, poster e sculture realizzate da artisti, illustratori e designer indipendenti. Per esempio, Aled Lewis. In questo caso, Street Fighter rappresenta la fonte di ispirazione per una serie di opere derivate, il cui regime estetico spazia dalla pixel art alla street art. Il termine chiave è opere derivate anziché subordinate alla produzione del videogame. In altre parole, si tratta di espressioni della cultura audiovisiva che esistono indipendentemente dal videogame che omaggiano. Anche sul piano economico, questo secondo modello di arte videoludica presenta alcune diferenze significative. I profitti ottenuti attraverso la vendita di stampe e beneficiano gli artisti e non il publisher. La galleria trattiene una percentuale anche perché, in molti casi, gestisce la commercializzazione delle opere e come tale, svolge il ruolo di middle-man. Nel caso precedente, il publisher solitamente detiene i diritti delle opere prodotte. L'estetica di questi homage è essenzialmente retronostalgica, celebrativa, pseudo-ironica. Non a caso, si rivolge essenzialmente a un pubblico hipster. I vernissage sono dominati infatti da baffi a manubrio, Past Blue Ribbon e camicie a scacchi.
La Game Art in quanto tale, tuttavia, non prevede sponsor di natura industriale - e questo esclude a priori tutte le iniziative finanziate da corporation del calibro di Intel o Google - e dei publisher videoludici. Gli artisti che utilizzano il videogame come strumento espressivo si appropriano del mezzo e della sua estetica per scopi altri rispetto al semplice omaggio. La Game Art non celebra. La Game Art, semmai, critica, interroga, mette in discussione lo status quo. La game art è conservatrice. La Game Art progressiva. Su WIRED abbiamo discusso le opere di tre giovani artisti italiani di talento che hanno prodotto contributi significativi nel contesto della Game Art - ergo dell'arte contemporanea tout court - Giovanni Fredi, Stefano Spera e Marco Mendeni. Tre artisti che partono dal videogame ma fanno ricorso a strumenti espressivi differenti (fotografia, nel caso di Fredi: pittura, nel caso di Spera; videogame e machinima nel caso di Mendeni). Anche un osservatore disattento non potrà fare a meno di cogliere la profonda differenza che sussiste tra queste produzioni e le espressioni della cultura visuale precedentemente descritte.
Ogni circuito creativo presenta gerarchie, tassonomie e strategie di demarcazione. I mondi dell'arte non fanno eccezione. Al contrario, rappresentano una case study esemplare per comprendere le dinamiche legate alla creazione di capitale sociale, culturale ed economico in contesti post-industriali e digitali. Eddo Stern, artista di origini israeliane, docente e direttore del sensazionale GameLab studio della UCLA - il rivale ideologico e creativo del Game Innovation Lab della USC diretto da Tracy Fullerton - è uno dei pionieri della Game Art. Protagonista di un recente show personale alla Young Projects Gallery di Los Angeles intitolato "The World is Down: 10 Works by Eddo Stern", Stern esprime con intelligenza e acume estetico l'essenza del medium. Allestita negli spazi siderali del Pacific Design Center, la retrospettiva propone dieci opere seminali, tra cui la versione tre punto zero di “Darkgame (v3.0)”, installazione interattiva che consente al visitatore di manipolare un avatar in uno spazio astratto e oscuro, a metà tra il subconscio e l'inferno. La creatura umanoide colleziona organi disseminati in questo scenario - cuori, occhi, orecchie - e così facendo, incrementa il proprio potenziale. Darkgame (v3.0) è fruibile anche da giocatori non-vedenti dato che il giocatore viene "diretto" dalla voce di un demiurgo femminile e dalle vibrazioni di un caschetto di proto-realtà virtuale che ricorda le originali invenzioni di eXistenZ. “Darkgame (v3.0)” stimola una riflessione sulle dinamiche del videogioco, sull'esigenza di migliorare continuamente la propria performance attraverso pratiche di self-tracking, sulla raccolta coatta di power-up, bonus, punti e badge. Una delle caratteristiche dell'arte videoludica è la sua natura fluida e cangiante, che spesso si evolve con l'evolversi della tecnologia. Non a caso, Darkgame è un progetto in progress: iniziato nel 2008, l'opera si è progressivamente evoluta. La versione 3.0 che ho sperimentato la scorsa estate alla Young Projects Gallery include una nuova interfaccia e routine di programmazione ottimizzate. In questo caso, prodotto e processo tendono a sovrapporsi. La Game Art usa l'interfaccia del gioco per esplorare dinamiche di natura filosofica. Più che un gioco, un esperimento neuroscientifico.
Un'altra recente opera di Stern, Goldstation (2012) mette a tema l'imperativo del Progresso nel contesto di regimi capitalistici. In questa installazione, fruibile su PC e Mac, l'utente utilizza il controller di PlayStation3 per gestire l'operato di una catena di montaggio. Il fruitore amministra il processo di estrazione di minerali pregiati su un asteroide fluttuante. Si noti che la dinamica ludica è del tutto fine a se stessa: la produzione produce ulteriore produzione. L'atomizzazione del lavoro e la spersonalizzazione dei processi creativi portano in primo piano le logiche sottese al game design, a sua volta metafora delle dinamiche creative delle società postindustriali. Il ritmo produttivo aumenta con il passare del tempo, finché il lavoratore/minatore, stremato, è costretto alla resa. Game over. In altre parole: nessuno vince a "Goldstation". Tutti perdono. L'estetica minimale celebra la mitopoiesi dell'atto creativo, la sua reificazione, normalizzazione sociale. Splendida metafora del grinding di World of Warcraft e del "digital labor", quest'opera porta in primo piano le intrinseche contraddizioni delle società tecnologicamente avanzate. Non si uccidono così anche i videogamers?
Paul Young, direttore di una galleria che ha aperto i battenti nel 2009 e che sta rapidamente diventando uno dei poli della Game Art sulla West Coast, ha svolto un eccellente lavoro di allestimento, dedicando un'intera sala al capolavoro machinima Vietnam Romance (2003), che tematizza il rapporto incestuoso tra il videogame e la cultura militare, sua vera matrice. In questo remix creativo della guerra simulata su PC e console, Stern ricrea il conflitto del Vietnam attraverso sfide multiplayer, fan clips e suoni MIDI proto-chiptune. Il video completo è disponibile qui. L'installazione consiste in una proiezione a tutta parete, in una tenda camouflage impreziosita da un tappeto persiano e da un divano crivellato di colpi. Mentre i giocatori celebrano i massacri simulati e la propaganda interattiva di Activision ed Electronic Arts, gli artisti ci invitano a riflettere sulle implicazioni di un passatempo apparentemente triviale. I nostri giochi ci permettono di comprendere la nostra cultura" scriveva Marshall McLuhan in Understanding Media (1964). Esattamente.
Con Fake Portal (2012), Stern tematizza il passaggio interdimensionale offerto dal medium videoludico - e lo fa attraverso il montaggio creativo di situazioni tratte dai videogame e montate in loop. Il passaggio diventa puro paesaggio, metafora del game come strumento che simula l'intrusione (o illusione?) in realtà differenti. Il gioco penetra nel reale - ci troviamo di fronte a una scultura, che occupa uno spazio fisico all'interno della galleria - che e a sua volta viene com-penetrato. Si traa di un'opera ellittica - ultima iterazione di Portal, Wormhole, Flythrough del 2011 - che attesta come nel videogame si viaggia senza tuttavia arrivare mai da nessuna parte, anche perché il punto di arrivo e di partenza coincidono. Un viaggio psichedelico - il game come strumento che consente di sperimentare realtà "altre", meta-luoghi in cui la volontà di potenza e il subconscio distruttivo generano nuovi mostri da abbattere con il BFG. Total recall.
A differenza di molti pseudo-critici d'arte che rigettano ex ante le espressioni di user-generated content per ragioni di demarcazione intellettuale, come direbbe Pierre Bourdieu, Stern non si fa intimidire. Il nostro ha investigato il fenomeno delle subculture geek attraverso una serie di brillanti interventi. Uno dei migliori e' Best...Flamewar... Ever/Leegattenby Kings of Bards v. Squire Rex (2007). Leegattenby King of Bards e Squire Rex sono due giocatori del fantasy online di Sony Online Entertainment, Everquest. Nel 2004, i due appassionati si sono dati battaglia sui forum del publisher, dando vita a una intensa flamewar che è rapidamente degenerata. Smack talk a profusione, insulti, attacchi sotto la cintola... insomma tutti gli ingredienti del tipico dibattito tra geek su internet. Con una eccezione: in questo caso, si è passati dalle parole ai fatti. I due si sono infatti sfidati sul ring in un incontro di boxe. Stern, che ha seguito la diatriba online, ricostruisce e documenta il feroce scambio di epiteti attraverso un video che mostra le rappresentazioni grottesche dei due giocatori, create attraverso esempi di fan art raccattati in rete - si noti che nella gerarchia dell'arte contemporanea, la fan art si colloca ai margini - e' perfino piu' disprezzata della concept art - siamo ai livelli dell'arte folk, "ingenua". In questa geniale produzione che mette a tema l'idea di mascolinità nell'era degli avatar videoludici e del gioco delle identita' simulate, Stern ha arruolato madre e moglie per doppiare i due flamer. La mamma del nostro interpreta Leegattenby - senza prezzo il suo accento israeliano -, mentre la moglie vivifica il "punk-ass" Rex.
In Emoticon (2007), Stern visualizza l'idealtipo femminile immaginato dai giocatori maschili. In questo esempio di fan art videoludica, l'immagine finale - visibile nel video sottostante - rappresenta la sintesi digitale dei contributi dei gamers. Se l'opera precedente tematizzava l'idea di mascolinit, questa visualizza l'archetipo femminile definito dal techno-immaginario maschile. E" interessante notare che nel video di Stern, il simulacro della donna apre la bocca, ma non parla.
In Man, Woman, Dragon (World of Warcraft Reduction) (2007), Stern utilizza un medium analogico per rappresentare il mondo secondo l'immaginario definito dai giocatori di World of Warcraft. Un mondo che prevede tre figure fondamentali: uomo, donna e drago. L'uomo, in questo caso, è una replica di Chuck Norris, la donna è un elfo e il drago, metonimia del fantasy digitale, esprime la portata mitologica di una sottocultura cresciuta in ambienti tecnologicamente mediati. Conflitto, gioco di ruolo, finzione e frizione, decostruiti - un'opera come Man, Woman, Dragon attesta definire "digitale" la Game Art significa non aver compreso nulla di questo fenomeno complesso e articolato.
La Game Art di Eddo Stern ci invita a riflettere sulle conseguenze del videogioco sulla cultura contemporanea. Offre una serie di critiche penetranti all'ideologia, logica ed estetica di un medium apparentemente disimpegnato. E lo fa attraverso il medium stesso, appropriandosene, sovvertendolo, trasformandolo. In modo sofisticato, sottile, mai letterale. Stern scandaglia i bassifondi del digitale, le zone di frizione tra reale e virtuale, performance e identità, portando in primo piano gli aspetti affascinanti e repellenti della cultura videoludica.
Se ancora non fosse chiaro, la Game Art comincia esattamente dal punto in cui la game art si ferma." (Matteo Bittanti, WIRED)