"Ogni anno, migliaia di libri invadono le librerie. Almeno un centinaio sono importanti. Solo una manciata - meno di una decina - riescono a cogliere perfettamente la zeitgeist, ad illuminare il presente e offrire nuove modalità di comprensione del contemporaneo. Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri di Sherry Turkle appartiene a questa elitaria categoria. Finalmente disponibile in lingua italiana a due anni di distanza dalla pubblicazione negli Stati Uniti grazie ai tipi di Codice, Insieme ma soli completa una fondamentale trilogia che esplora l’impatto sociale e psicologico delle nuove tecnologie - computer, videogiochi, robot - nei paesi tecnologicamente avanzati - Stati Uniti e Giappone in primis, ma le sue osservazioni riguardano anche l’Inghilterra e l’Europa di Serie A.
Second Self (1984), Vita sullo schermo (1995 negli Stati Uniti, 1997 in Italia grazie ad Apogeo) e ora Insieme ma soli (2012) illuminano gli effetti dei new media a livello micro (l’individuo) e macro (la società). È mia intenzione portare in primo piano alcuni temi chiave discussi dalla ricercatrice nel suo ultimo saggio attraverso la formula del “close reading”, ossia della “lettura ravvicinata”. In altre parole, anziché proporre una banale recensione che produce quella fastidiosa semplificazione binaria e dicotomica tipica della retorica dei mass media ("Facebook sì/Facebook no"), vorrei parlare di Insieme ma soli adottando una strategia esegetica analoga a quella applicata per altri "libri importanti" come Retromania di Simon Reynolds e Distrust That Particular Flavor di William Gibson. Queste analisi sono complementari alle mie non-recensioni che adottano il punto di vista dell'oggetto esaminato dai vari autori: per esempio, "Piange il telefono", una meta-lettura di Sherry Turkle o "L'uomo della bolla" come commento al bel saggio di Eli Pariser. Premetto che le traduzioni in italiano dei passaggi citati sono mie. Non ho letto le versioni tradotte, ma i testi “originali”, in inglese.
Partiamo.
Turkle riassume così il proprio itinerario di ricerca:
“In Second Self avevo esaminato il lato personale e soggettivo dei personal computer - non quello che i computer fanno per noi, ma quello che fanno a noi, al modo in cui ci aiutano a costruire la nostra identità, relazioni sociali e umanità. Sin dall’inizio, gli individui si sono serviti di computer interattivi e reattivi per comprendersi meglio, per cogliere la differenza tra umano e artificiale. Le macchine intelligenti sono vive? In caso negativo, perché no? I miei studi mi hanno portato a concludere che i bambini e i più giovani tendono a considerare questa nuova tipologia di oggetti -l’oggetto computazionale - come 'quasi vivi'. Questa storia continua a svilupparsi ancora oggi. In Vita sullo schermo, la mia attenzione si è spostata dalle modalità con cui le persone si rapportano ai computer al modo in cui costruiscono nuove identità negli spazi online. Con Insieme ma soli intendo mostrare come la tecnologia ha ridefinito queste due narrazioni, portandole a un nuovo livello”
Insieme ma soli si apre con un doppio esergo che giustappone l'antico all'ultramoderno, la cultura alta al vernacolare, nella fattispecie Platone (“Quel che ci inganna, ci incanta”, tratto dalla Repubblica) e un tweet (“Ho finito con le macchine smart. Voglio una macchina che presti attenzione ai miei bisogni. Dove sono le macchine sensibili?”), che cristallizzano i temi portanti del saggio: da un lato, l’idea che la simulazione ci seduce - come ci ricorda Baudrillard - e dall’altro l’idea che questa seduzione sia sintomatica di un profondo disagio sociale e psicologico. In altre parole: la tecnologia rappresenta una possibile soluzione a situazioni percepite come problematiche, per esempio, la solitudine, la mercificazione dei rapporti umani nelle società tardo-capitalistiche, la trivializzazione delle relazioni sociali operata dai mass media e la crescente alienazione nei confronti del cosiddetto “Reale”, ivi inteso come un insieme di esperienze non-mediate, o non-mediabili o im-mediate. Ironicamente, la soluzione tecnologica finisce per diventare parte del problema, creando nuove forme di solitudine.
Sin dai primi anni Ottanta, Turkle ha studiato fenomeni quali la normalizzazione del linguaggio informatico nei contesti della quotidianità. Secondo la ricercatrice del MIT, la pervasività delle cosiddette metafore computazionali - per esempio “debugging” e “programming” - nelle conversazioni di tutti i giorni attestano la progressiva subordinazione dell’umano al meccanico. Ovvero: stiamo diventando delle macchine, dei computer, dei dispositivi tecnologici che rispondono alle sollecitazioni attraverso meccanismi di feedback, input/output, codice binario. Si potrebbe osservare che il transfer del gergo dell'artificiale alla sfera umana non è esclusivo dell'informatica. Tale processo riguarda infatti le tecnologie mediali tout court. Il cinema, per esempio, ha introdotto modalità percettive che oggi consideriamo come parte integrante del nostro apparato visivo. Chi scrive è fermamente convinto che “I media determinano la nostra situazione” (Friedrich Kittler) sul piano epistemologico, fenomenologico e persino ontologico. Che i media sono i veri messaggi (Marshall McLuhan). Che non esiste alcuna realtà al di fuori dei media (Jean Baudrillard). Che non esiste alcun tempo al di fuori dei media (Richard Grusin, Vilem Flusser). Turkle, tuttavia, ritiene che i computer - più del cinema, della televisione, della fotografia messi insieme- abbiano modificato il sistema operativo degli esseri umani - ah, beccato in fallo - e trasformato radicalmente il nostro modus pensandi. Tale influenza viene giudicata "nefasta".
“Mi sono sempre chiesta: Come ci cambiano i computer? I miei colleghi hanno spesso rifiutato questo approccio, affermando che i computer sono “meri strumenti”. Ma io ero persuasa che il termine 'mero' in questo contesto sia un inganno, un sottile depistaggio. I nostri strumenti ci influenzano. E il computer - una macchina capace di emulare il funzionamento della mente - ci ha cambiato più di ogni altro medium”
Altrove Turkle cita ed espande una celebre affermazione di Winston Churchill:
“Diamo forma ai nostri edifici e i nostri edifici, a loro volta, ci in-formano, ha scritto Churchill. Analogamente, produciamo tecnologie che, per converso, ci ri-producono. Ergo, quando ci troviamo di fronte a una tecnologia dobbiamo sempre domandarci: in che modo essa ci aiuta a raggiungere i nostri obiettivi in quanto esseri umani? A sua volta, questa domanda ci costringe a riconsiderare i nostri obiettivi in quanto tali. Le tecnologie ci invitano a riflettere sui nostri valori e sulle nostre priorità in quanto specie. Insieme ma soli rappresenta il mio tentativo di riflettere sulle trasformazioni tecnologiche dell’ultimo decennio."
Per rispondere a queste domande fondamentali, Turkle adotta un approccio etnografico che prevede l’osservazione partecipante e il dialogo con i soggetti che appartengono a uno specifico contesto tecno-sociale - per esempio, le comunità online gli utenti di smartphone etc. -, un approccio simile a quello applicato per "Digital Youth" un progetto di ricerca capitanato da Mimi Ito al quale ho avuto il piacere di partecipare tra il 2006 e il 2008. Questa tecnica di analisi presuppone che gli usi sociali delle tecnologie siano più importanti degli usi previsti da parte dei progettisti, il che accomuna Turkle a Gibson.
Come abbiamo visto, per Turkle gli oggetti tecnologici non sono “meri strumenti”. Ossia: non esistono tecnologie "neutrali". Per quanto esse non determinino lo sviluppo delle interazioni sociali come invece sostengono deterministi tecnologici - si pensi a Kevin Kelly e a gran parte dei digerati della Silicon Valley - nondimeno, alterano profondamente le dinamiche relazionali di intere società. Per tanto, affermazioni a prima vista apodittiche come “I computer hanno introdotto la filosofia nella vita quotidiana e, in particolare, hanno trasformato i bambini in filosofi” andrebbero esaminate con la massima attenzione. Per Turkle, i computer sono dispositivi tecno-sociali che riconfigurano nozioni quali identità, soggetto, consapevolezza".
“Verso la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, abbiamo cominciato a fare i conti con macchine capaci di spingerci a pensare in modo differente, a riconsiderare sotto nuova luce temi importanti quali il pensiero umano, la memoria e la consapevolezza [...] il computer, in quanto tale, è un oggetto evocativo che produce auto-riflessività.”
Insieme ma soli riprende, aggiorna e per certi versi revisiona le conclusioni raggiunte nelle precedenti ricerche - tra cui spicca l'importante antologia La vita nascosta degli oggetti tecnologici (2009) - e discute l’impatto e gli usi delle nuove tecnologie (dalla cibernetica di consumo ai social media) sulle nuove generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”, “Cresciuti con i telefoni cellulari e con giocattoli che pretendono amore da parte dei loro utilizzatori.” Anticipo che le conclusioni di Turkle sono impregnate di un sobrio realismo e da un lucido pessimismo in gran parte assente nelle conversazioni sui new media. Singolare, considerando che nei primi anni Ottanta, Turkle aveva guardato alle nuove tecnologie della comunicazione con grande entusiamo. In un certo senso, Insieme ma soli rappresenta una svolta radicale: pur non sconfessando i precedenti lavori, questo saggio solleva importanti domande su fenomeni assolutamente aberranti che oggi accettiamo come “normali”, dalla mercificazione del rapporti umani attraverso i social network (Facebook, LinkedIn etc.), dalle nuove solitudini create dal mito della connettività totale, dall’apatia tecno-sociale prodotta dagli smartphone fino alla proliferazione di simulazioni. “Al termine di Vita sullo schermo - scrive Turkle - ho cominciato a pormi una serie di domande sui costi reali della vita simulata, e, mentre lavoravo a questo progetto [Insieme ma soli, ndt] le mie preoccupazioni sono cresciute a dismisura”.
La conclusione di Turkle - anticipata dal sottotitolo del suo libro - è tutt'altro che la tecnologia ci separa “Sempre più insicuri nelle nostre relazioni sociali e ansiosi nella sfera intima, chiediamo alla tecnologia strategie per facilitare l nostre interazioni sociali e, al tempo stesso, di proteggerci dalle relazioni sociali stesse”. È il paradosso della contemporaneità digitale. Ergo, “Ci aspettiamo più dalla tecnologia che dai nostri simili”.
Nella prima parte del saggio, Turkle esamina simulazioni elettroniche e chatterbot come ELIZA, per poi studiare le implicazioni psicologiche della cibernetica ludica e dei cosiddetti giocattoli smart - Tamagotchi, Furby, AIBO, My Real Babies, Kismet, Cog, e Paros, assai popolari nelle famiglie della middle e upper-class americana, specie nella Silicon Valley. Nella seconda parte, Turkle esamina gli usi e abusi delle tecnologie di natura sociale, dall’avvento delle bullettin board a IRC, da American Online ai MUD e agli RPG online. E poi telefoni cellulari, smartphone, social network, Twitter, Second Life e MMORPOG. L’obiettivo? Costruire una sorta di mappatura delle interazioni sociali tecnologicamente mediate, usando una metodologia simile all’associazione di idee tipica della psicanalisi, per cui collegamenti inaspettati, lapsus freudiani e commenti en passant rivelerebbero la natura profonda dei nostri comportamenti. Come scrive Turkle: “A sensitive ethnographer is always open to the slip, to a tear, to an unexpected association. I think of the product as an intimate ethnography.”
Turkle ammette che il suo oggetto di studio è un bersaglio in movimento: le rapide trasformazioni technologiche mal si combinano con le dinamiche di studio accademiche, che prevedono tempistiche prolungate e dilatate. Ciononostante, secondo Turkle è plausibile attendersi "un’intensificazione della mercificazione dei rapporti umani per mezzo della tecnologia”, favorita dalla totale disattenzione su questioni fondamentali come quelli della privacy nell’era digitale. Scrive Turkle: “I trend attuali indicano due movimenti paralleli: da un lato tendiamo ad assegnare caratteristiche umane agli oggetti e dall’altra ci accontentiamo di trattare gli esseri umani come oggetti”.
E poi:
“Un tempo, avremmo giudicato invadente - se non addirittura illegale - il fatto che il mio telefono cellulare potesse rivelare in tempo reale la posizione di amici e conoscenti situati nel raggio di dieci miglia. Oggi lo diamo per scontato. La vita nella bolla mediale è considerata naturale, così come la fine di una particolare etiquette pubblica: per le strade, parliamo nei microfoni invisibili dei nostri telefoni cellulari e non ci preoccupiamo se diamo l’impressione di parlare da soli. Condividiamo intimità con l’aria senza preoccuparci di chi può ascoltare le nostre confessioni e senza prestare attenzione ai dettagli fisici dello spazio in cui ci troviamo”
Oggi la tecnologia si “propone come l’architetto supremo della nostra sfera intima”. Ci seduce, "nel momento in cui offre possibili soluzioni alle nostre vulnerabilità umane. E, non a caso, siamo incredibilmente vulnerabili. Siamo soli, ma temiamo l’intimità. Le connessioni digitali e i robot socievoli offrono l’illusione della compagnia senza le pretese dell’amicizia. La nostra vita connessa ci permette di nasconderci ai nostri simili nel momento stesso in cui offriamo la nostra massima visibilità. Preferiamo mandare un messaggio testuale invece di parlare”. Turkle conclude che “Gli esseri umani sono soli. La rete è seducente. Ma se siamo costamente accesi e accessibii, rinunciamo ai benefici della solitudine”.
Seduzione e simulazione sono due termini che ricorrono frequentemente e che facevano da leit motiv nel suo precedente lavoro, Il disagio della simulazione (2011): “Ritengo che nella nostra cultura della simulazione, la nozione di autenticità rappresenti quello che il sesso era per i Vittoriani: una minaccia e un’ossessione, un tabù e una meraviglia”. Per le nuove generazioni, cresciute con videogame, Tamagotchi e Facebook, la nozione di “vitalità” è del tutto priva di importanza. Parlando dell’epifania robotica provocata dalla discussione sulle realtà artificiali, Turkle conclude: “Per i più giovani la vitalità sembra essere priva di valore intrinseco”, ergo un robot, un androide, un avatar può svolgere una funzione ontologicamente valida quanto un essere vivente. Non a caso, la vitalità “è utile solo quando svolge una precisa funzione”, ma non riveste una valenza tout court. Quando, in futuro, utilizzeremo robot come partner romantici e sessuali - un’eventualità che la fantascienza ha introdotto da tempo, si pensi a A.I. (2001) di Steven Spielberg - avremo raggiunto l'apogeo di un fenomeno che secondo Turkle nasce con “la creazione di un profilo su un sito di social network, di un personaggio o un avatar di un videogame o di un mondo virtuale”. Quali sono le contro-indicazioni di questi gesti apparentemente banali? “Con il passare del tempo, queste performance identitarie finiscono per convergere con l’identità in quanto tale. Si tratta del primo ambito in cui la robotica e la vita connessa finiscono per convergere. Questo perché la performance dell’attenzione e dell’amore non è spontanea, ma programmata nei robot”.
In altre parole, la tesi portante di Insieme ma soli è che le tecnologie digitali e la robotica abbiano falsificato le nostre relazioni sociali, offrendo una replica svuotata di senso, una simulazione deprivata dei valori essenziali che le caratterizzano. Per tanto, un termine come “amico” nell’era Facebook ha del tutto perso il senso originale, finendo perlegittimare la strumentalizzazione dell'Altro. Linkedin ci invita a stabilire un contatto con altri esseri umani perché “potrebbero esserci utili”. I siti di social network non hanno altra funzione se non quella di reificare l’individuo. I veri intenti dei social network sono sorveglianza e controllo, sfruttamento e manipolazione. Premesso che condivido pienamente l’analisi di Turkle - solo un ingenuo può credere nella retorica pseudo-idealista di Mark Zuckerberg - ci tengo a precisare che la performance non è un’esclusiva della sfera digitale. La nostra vita non è una serie di performance, di rappresentazioni, di recite, come ci ricorda il sociologo Ervin Goffman. E l’enfasi su una non precisata nozione di autenticità è fuorviante: tutte le nostre performance sono "autentiche". In questo momento, per esempio, sto performando il ruolo del collaboratore di Wired che vive a San Francisco e che si interessa di new media. Tra un’ora circa performerò il ruolo di docente universitario che descrive le logiche di funzionamento delle culture visuali a una ventina di studenti. Terminata la lezione, performerò il ruolo dello spettatore cinematografico che frequenta una sala indipendente su Fillmore perché si interessa di cinema alternativo e che lascerà probabilmente un commento su mubi.com. E così via. Tutte queste performance sono reali e autentiche e rappresentano frammenti di quella costellazione di performance associate a un particolare soggetto. Sono briciole degli aspetti personali che ho deciso di presentare e condividere con il mondo, anzi, con i mondi. Alcune di queste performance si svolgono nella dimensione digitale, altre in quella tangibile, concreta e im-mediata. Pur condividendo le tesi di chi afferma che anche nel cosiddetto tangibile spesso operiamo sotto l'influenza delle logiche di funzionamento iper-mediate -alcuni dei miei progetti esaminano le dimensioni epistemologiche ed esistenziali del fenomeno - non ritengo che la dicotomia tra "autentico"/"in-autentico" ci aiuti a fare chiarezza. La performance - intesa come prestazione, rappresentazione - costituisce il formato operativo dell’essere umano in quanto tale. Non esiste un soggetto scorporato dalle sue performance. Ergo l’idea che le performance online siano in qualche modo false rispetto a quelle che si svolgono nella dimensione im-mediata è problematica. O sono entrambe "autentiche" o sono entrambe "fasulle". Quello che facciamo online è reale quanto quello che facciamo offline. Il tema è complesso richiede una trattazione più articolata. Mi riprometto di riprenderlo a breve.
Torniamo a Turkle. Uno dei leit-motiv di Insieme ma soli è che siamo succubi della fantasia tecnologica e del mito che i computer ci rendono liberi quando in realtà producono nuove forme di schiavitù e prigionia:
“Le tecnologie connettive ci avevano promesso più tempo libero. Ma nel momento in cui il telefono cellulare e lo smartphone hanno eroso la barriera tra la dimensione lavorativa e quella del tempo libero, ci siamo resi conto che oggi non ci basta tutto il tempo del mondo per fare quello che ci proponiamo di fare. Persino quando non stiamo lavorando sperimentiamo il nostro stato come ‘ansiogeno'”.
L'imperativo dell'accesso è la patologia del ventunesimo secolo.
Questa condizione ci rende profondamente nervosi, inquieti, tristi. La qualità delle nostre relazioni sociali è in picchiata da almeno un decennio e tentiamo di rimediare con la tecnologia, moltiplicando le possibilità di connessione. Connessioni "prive di attriti", per usare un'affermazione - involontariamente geniale - di Zuckerberg. Turkle cita il caso di una trentenne che utilizza Skype per comunicare a distanza con la nonna. Da un altro, Skype consente a Ellen di interagire con la nonna, distante migliaia di chilometri. Ma l’interazione è puramente simulata. Ellen non presta attenzione alla conversazione, ma risponde agli email, controlla i feed e aggiorna lo stato di Facebook mentre finge di conversare.” Ellen ovviamente si sente in colpa e ammette che “La nonna stava parlando con qualcuno che non era veramente lì, di fronte a lei”.
Questo aneddoto esemplifica la condizione della contemporaneità. Le tecnologie simulano intimità ma de facto creano nuove distanze. Anche quando ci troviamo nella stessa stanza, siamo ad anni luce di distanza, incollati ai nostri schermi alla disperata ricerca di soluzioni al vuoto pneumatico del contingente. Non usiamo i social media per stabilire un contatto con altri esseri umani, “ma per tenerli a debita distanza,”conclude Turkle. “Quando una tecnologia simula l’intimità, le relazioni si riducono a mere connessioni. E in modo altrettanto semplice, le connessioni vengono spacciate per intimità. Detto altrimenti, le cyber-identità non sono altro che cyber-solutudini”. Il rumore di fondo - Twitter, SMS, Facebook etc - ci distrae e ci fa sentire al centro del mondo. Pura megalomania: non siamo mai stati così impotenti. Mi torna in mente quello splendido saggio di Jonathan Lethem, “Proximity People” (Gente prossima), pubblicato su Granta nel 2009 di cui avevo parlato qui. Ecco un estratto:
Gente prossima
Quelli che lavorano alla cassa e che ti fanno aspettare mentre rispondono al telefono, dando la precedenza ai clienti telefonici rispetto a quelli che si trovano di fronte, quelli che hanno avuto la forza di mettersi in marcia, lasciare il letto, per arrivare in negozio. Quelli che interrompono la chiamata con la prima persona che ha chiamato con il servizio di attesa-di-chiamata per prendere la chiamata di quello che ha chiamato dopo. Quelli che arrivano alla cassa e fanno aspettare il cassiere mentre finiscono la loro conversazione al cellulare. Quelli che si leggono l’email mentre tu sei nella stanza. Quelli che usano lo smartphone per leggere l’email mentre tu sei in casa. Quelli che prendono a prestito il tuo computer o smartphone per leggere i loro email. Quelli che rispondono agli email di gente che non conoscono con grande alacrità e maiuscole e punti esclamativi mentre rispondono lentamente e senza mauiscole e punti escalamativi ai loro amici devoti. Quelli che dis-amicano i loro amici mentre si amicano i loro non-amici. Quelli che ignorano le persone. Quelli che non sono personali. (Jonathan Lethem, "Proximity People", Granta, 2009)
Per Turkle, il computer non è uno specchio, ma un generatore di nuove identità: “Tempo fa avevo descritto il computer come un secondo sé, come uno specchio della mente. Questa metafora non basta più. I nostri strumenti ci offrono spazi per l’emergere di un nuovo sé, un sé diviso tra lo schermo il reale fisico, la cui esistenza stessa dipende dalla tecnologia” E parafrasando la celebre affermazione di McLuhan secondo il quale i media sono estensioni dell’essere umano, Turkle conclude che, per milioni di individui, “La tecnologia è diventata l'organo fantasmatico”.
“Travolti dal volume e dalla velocità delle nostre vite, ci siamo rivolti alla tecnologia per guadagnare tempo. Ma la tecnologia ci impegna a tutte le ore e ci rende sempre più bisognosi di uno stacco. Gradualmente, abbiamo finito per far coincidere la nostra vita online con la vita tout court”.
Difficile darle torto.
[fine prima parte]" (Matteo Bittanti, WIRED)
Comments