"Proseguiamo l'esplorazione critica del nuovo saggio di Simon Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato (ISBN Edizioni, 2011). Penetrante riflessione sul rapporto tra la pop culture nel suo complesso e le culture digitali, Retromania è un tour de force intellettuale accessibile e stimolante. Il tema di oggi: l'iPod ci rende asociali (?), franticity e sharity.
In uno dei migliori capitoli di Retromania, Reynolds racconta la sua smisurata passione per due attività che, nell’era digitale, sono diventate quasi congruenti: la collezione e la condivisione di musica. Nello specifico, il critico britannico esamina due fenomeni peculiari: sharity e franticity. Il primo, frutto della conflazione di tre termini - “share + charity + rarity” - indica la distribuzione attraverso blog e servizi di peer-to-peer, di musica rara, oscura e di nicchia, una tendenza che secondo Reynolds esprime in modo esemplare alcune contraddizioni tipiche del web 2.0, esemplificata dallo slogan/mantra: “Sono appena entrato in possesso di qualcosa che nessun altro ha mia visto o sentito, quindi devo renderlo immediatamente disponibile al MONDO INTERO”. Questa filosofia “combina generosità di natura competitiva alla pura autocelebrazione”. Si tratta, in altre parole, di accumulare e rendere visibile il proprio capitale subculturale attraverso la diffusione di materiali sonori arcani, esoterici e oscuri - mix sconosciuti, lati-B mai pubblicati, registrazioni in studio mai sentite - ignorando i desiderata delle etichette ufficiali. Secondo Reynolds, ciò che distingue il fenomeno dello sharity dalpeer-to-peer 'tradizionale' è “l’esibizionismo di fondo dei suoi membri", che competono tra di loro per individuare e distribuire i file mp3 più rari. I praticanti ritengono che il loro modus operandi sia "un atto nobile", doveroso, socialmente utile, se non culturalmente necessario. Il che spiega perche' "molti blogger investano considerevole tempo e risorse per riprodurre nei minimi dettagli e distribuire online le illustrazioni, le copertine, i testi, insomma i contenuti di interi boxset. L'etichetta “share” presenta come ‘altruistica’ un’attività legalmente ambigua – de facto, lo sharity è un’aperta violazione del copyright altrui. Come tale, è un bizzarro sodalizio di consumismo e comunismo.”
Questo “bizzarro sodalizio di consumismo e comunismo” informa gran parte delle prassi tipiche del web 2.0. Il collezionismo pubblico descritto da Reynolds ricorda l'attività dei “dubbers” occidentali che da anni traducono, doppiano e mettono in circolazione attraverso internet anime e manga disponibili solo in Giappone, un fenomeno studiato in modo esemplare da Mimi Ito, oppure degli appassionati di emulazione videoludica, che competono tra di loro per individuare le ROM più rare per sistemi videoludici ormai obsoleti.
Per quanto eterogenee, tutte queste pratiche sono accomunate da quella che Reynolds chiama “la scarica di adrenalina innescata dall’idea stessa di connettività”: per quanto effimera, eterea, intagibile, l’illusione di stabilire un contatto con un altro essere umano grazie alla condivisione di materiale culturale non ha perso il suo fascino. Al contrario, ha dimostrato la validità delle teorie del sociologo Marcel Mauss sull'economia del dono e dello scambio all’interno delle società primitive.
Reynolds non nasconde tuttavia le proprie ansie per gli effetti collaterali della cultura del download selvaggio. Paragonandolo al consumo di sostanze stupefacenti, il critico musicale ritiene che “l’accesso assoluto corrompe assolutamente” e che “il download conduce a un abisso esistenziale, un abisso le cui profondità sono direttamente proporzionali al vuoto delle nostre vite. Il download degenera rapidamente in vero e proprio disturbo psicologico", un disturbo che esprime "l’essenza stessa del consumismo”.
In questo brillante passaggio, Reynolds descrive le condizioni disperate dei tossicodipendenti da download:
“Finisci per accumulare così tanti album, bootleg dei concerti e DJ set che non riesci più a trovare il tempo necessario per decomprimerli e ascoltarli. Così come il crack segue la cocaina, capisci di avere dei problemi seri quando cominci a skippare il brevissimo, ma irritante intervallo temporale che intercorre tra il momento in cui i files diventano disponibili per il download e download in quanto tale e lo posticipi a un momento successivo, creando liste zeppe di link a ‘cose da scaricare’. Ho cominciato solo recentemente a cancellare alcuni gigabyte di roba scaricata in passato. I veri collezionisti sanno benissimo che la quantità è la vera nemesi della qualità dato che più materiale ammassiamo, meno intensa è la relazione che possiamo instaurare con uno specifico brano o album.”
Reynolds definisce questo disagio psicologico - prodotto dall’accesso incondizionato e dalla sovrabbondanza di offerta musicale (ma il fenomeno riguarda anche giochi, film, fumetti, libri) - “franticity”, un neologismo che indica quella “fissazione compulsiva” che contraddistingue “il pulsare neurologico della vita online”. Questo stato di nevrotica insofferenza per l’attesa, anche minima, e di consumo bulimico di contenuti culturali, ha prodotto effetti deleteri sulla musica, al punto da averla resa “inconsistente – non solo in termini di smaterializzazione – il codice è liquido, non solido – ma anche qualitativo”. A questo proposito, il mash-up, rappresenta secondo Reynolds l’apoteosi di una tendenza nichilista al crasso riciclo di detriti musicali. Creare mash-up, scrive il critico con evidente disgusto, è un’attività fine a se stessa, sterile, motivata non tanto da urgenza creativa, ma dalla mera disponibilità di mp3.
Ora, il dispositivo tecnologico che piu' di ogni altro ha compromesso lo statuto artistico e culturale della musica in quanto tale è l’iPod, “espressione compiuta di una mentalità votata all’accumulo e alla costante riclassificazione dei contenuti memorizzati”. Attraverso un’analisi critica di uno dei migliori saggi sugli effetti sociali e psicologici del consumo di musica attraverso il lettore mp3 di Apple mai pubblicati- iPod, Therefore I Am: Thinking Inside the White Box (2005) di Dylan Jones – Reynolds spiega che attraverso questo dispositivo “collezione e ricordo finiscono per convergere e confondersi”, con l’aggravante che “l’iPod promette il mito del controllo totale e individuale su enormi quantità di musica”. Reynolds considera l’iPod una tecnologie più asociali di sempre: “Cos’è più asociale? Guidare con il volume dello stereo a palla, girare per la città con una radio portatile al massimo, oppure camminare per strada con le cuffie dell’iPod infilate nelle orecchie?”. Se nei primi due casi il soggetto “contribuisce a modo suo alla vitalità cittadina attraverso la diffusione di suoni”, nel caso dell’iPod, “l’individuo si nega volontariamente, rifiuta di prendere parte alla vita urbana”. Ergo: “l’iPod è fondamentalmente asociale”. Notiamo, en passant, che critiche analoghe erano state sollevate, nei primi anni ottanta, al walkman: il lettore portatile di Sony era stato infatti accusato di isolare gli esseri umani e di promuovere un ethos basato sull'indifferenza e l'apatia. Tuttavia, le apocalittiche profezie non hanno trovato riscontri empirici: siamo sopravvissuti al walkman, nonostante tutto, no?
Lo sdegno di Reynolds per l'iPod e per la "logica dello shuffle" che ha promosso è secondo solo al suo disprezzo per quel proto-genere musicale che è il mash-up,
" [P]rodotto dalla medesima rivoluzione tecnologica [sottesa all'iPod]: la compressione delle informazioni musicali in forma di mp3 e l'incremento della larghezza di banda che ha consentito di trasmettere musica via internet a una velocità accettabile per le masse. Per quanto alcuni mash-up siano stati distribuiti sotto forma di singoli o album su CD, la maggior parte degli ascoltatori li hanno fruiti sotto forma di file mp3 circolanti in rete."
E poi:
"Ravvisiamo una seconda affinità tra iPod e mash-up: sotto un certo punto di vista, il mash-up non è che una mix-tape o una playlist iper-concentrata, così concentrata che due canzoni vengono suonate in modo simultaneo anziché consecutivo."
Conclusione: il mash-up è una forma di "pseudo-creatività che si basa su un'irriverenza innocua e per un puro fandom per il pop: ora, dato che alcuni brani piacciono a tutti, perché non incollarli insieme?"
Reynolds non lesina critiche anche a WIRED, rea di promuovere un ethos pro-tecnologico che non tiene minimamente conto delle conseguenze sociali dell’innovazione. A un certo punto leggiamo: “Per quanto WIRED ami descrivere la tecnologia come un fenomeno necessario, inevitabile, la verità è che le tecnologie non hanno alcuna presa e non lasciano alcun segno qualora il contesto sociale non sia pronto a riceverle: detto altrimenti, il gadget si limita ad articolare e soddisfare un bisogno sociale, ma non è in grado da solo di crearne di nuovi." Ergo, “l’invenzione culturale dei possibili usi di una specifica tecnologia precede sempre la tecnologia stessa”.
Nel caso specifico dell’iPod, Apple ha riscosso un successo planetario non tanto per avere assemblato il miglior lettore mp3. Semmai ha intuito e soddisfatto meglio di altri le aspirazioni/aspettative “della 'Generazione Io', una generazione per la quale la personalizzazione e la customizzazione dell’esperienza di consumo rivestono enormi implicazioni di carattere politico ed esistenziale. […] L’”i” iniziale ha un significato ben preciso: si tratta della mia musica, non della nostra musica”. (Nota: Questo passaggio risulta comprensibile solo considerando che in inglese “I” indica il pronome personale “io”).
L’iPod rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di trasformazione tecnica, commerciale e culturale della musica pop. “In un primo momento – scrive Reynolds – la musica ha subito un processo di reificazione, ovvero è stata trasformata in ‘cose’ (album di vinile, cassette analogiche) che potevano essere comprate, archiviate e gestite in modo personale. Successivamente, la musica è stata ‘liquefatta’ ovvero trasformata in informazioni che potevano essere trasmesse in streaming, trasportate ovunque e trasferite da un dispositivo all’altro”.
Ora, quali sono le conseguenze culturali della progressiva smaterializzazione dei formati di registrazione e dell'avvento di nuove modalità di consumo? Reynolds è apodittico e apocalittico insieme. Il fenomeno ha prodotto una “desacralizzazione e dissoluzione dell’esperienza sociale della musica. Ciò che era un tempo unico e irripetibile diventa ripetibile e ciò che era un tempo collettivo finisce per essere privatizzato”. Ergo, “Viviamo in un’era in cui la musica ha definitivamente perso ogni barlume di ‘kairos’ (termine che nell’antica Grecia indicava il tempo dell’evento o dell’epifania), subordinandosi al ‘chronos’ (il tempo quantificabile del lavoro e del divertimento).” Apple ha trasformato la musica pop in ipop.
Oggi la pop culture sta vivendo l’ennesima trasformazione. La logica del possesso è stata superata da quella dell’accesso: dal disco fisso alla nuvola. Reynolds non fa mistero di provare nostalgia per un’era ormai lontana, l’era della scarsità e dell’accesso limitato, dell’acquisto inteso come rituale: “Con la mercificazione della musica, l’investimento economico finisce per coincidere con quello emotivo. In un regime capitalistico, il denaro è il risultato del lavoro degli individui (per la maggior parte degli individui, si tratta di un risultato assai magro)”. Date queste premesse, “Quando spendevamo i nostri miseri guadagni nell'acquisto merci culturali, investivamo più tempo per goderle fino in fondo”. Secondo Reynolds, per massimizzare il nostro investimento economico ed emotivo, prima dell'avvento di internet prestavamo maggiore attenzione ai contenuti acquistati. Pretendevamo di più. Consumavamo meglio. Nel momento in cui la merce culturale – musica, libri, film etc- - diventa accessibile a costo zero, la nostra attenzione - ma anche i nostri standard qualitativi - entrano in crisi. Per tanto, oggi consumiamo di più, ma consumiamo peggio. Alla logica dell’”Oppure” (ovvero: “Scelgo questo piuttosto che quello e motivo la mia scelta in modo razionale, sulla base di un preciso canone estetico/morale/politico”), tipica di un’economia basata sulla nozione di scarsità, nell’era del web 2.0 si fa strada la logica del “Più/E”, per cui consumiamo quello che scarichiamo in modo distratto, senza problematizzare l'atto del consumo. Alla lunga, questa tendenza finisce per distruggere il valore intrinseco della merce culturale. L'ascolto casuale, generico, qualunquista ha ucciso la musica. “Al consumo approfondito si fa strada un consumo ampio”, conclude Reynolds.
Devo confessare che trovo queste affermazioni discutibili. La tesi secondo cui alcune attività tipiche della cultura digitale – per esempio, il download e il consumo individuale attraverso lettori di mp3 – determinino la fine della specializzazione e dell’ascolto “approfondito” non trova alcun riscontro empirico. Semmai, assistiamo a un proliferare di nicchie e una costante contaminazione di generi (fenomeno che tuttavia Reynolds trova deprecabile). Inoltre, l'idea che l’accesso incondizionato e indiscriminato finisce per polverizzare il valore intrinseco dell’opera – la sua aura, per dirla con Walter Benjamin – è a mio avviso fallace. E' tipica di una mentalità elitaria, non a caso assai diffusa tra quei critici (d'arte, letterari, musicali, cinematografici, videoludici etc.) che ritengono di svolgere il ruolo di arbitri del Buon Gusto e di emissari di entità superiori (l"Autore, la Società, Dio). Ora, la rete e il web 2.0 hanno finito per ridimensionare l'influenza di molti trendsetter – critici di professione in primis – diversificando non solo le prassi di consumo, ma anche della critica (le recensioni user-generated su Amazon, Yelp, Netflix etc., i commenti, i giudizi e le votazioni a fianco di ogni articolo, la proliferazione di blog etc.). Il cambio di paradigma non e' stato digerito dalla vecchia guardia.
Reynolds paragona il download al buffet (“all-you-can-eat”) e l’acquisto di merci culturali analogiche alla formula à la carte: questa analogia gastronomica è significativa perché riflette i medesimi pregiudizi che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha decostruito e smascherato nel suo capolavoro La distinzione. Critica sociale del gusto, argomentando in modo convincente che lungi dall’essere un'attività “naturale” o "neutrale", l’alimentazione è una prassi socialmente costruita e, come tale, espressione di una logica di classe. Mangiare è un atto comunicativo che consiste nel rendere pubblico o, meglio, ostentare, il proprio status. Il prestigio del buffet è inferiore a quello del consumo à la carte, in quanto si fonda su una logica inclusiva, laddove il secondo è, per sua natura, esclusivo. Il buffet è accessibile a tutti. Il ristorante à la carte a pochi. Infine discutibile la tendenza alla glorificazione dell'acquisto rituale, della feticizzazione dell’analogico, della merce tangibile, rispetto a quella digitale. L’idea che un libro sia culturalmente e socialmente superiore a un ebook è frutto di un'aberrazione. Le idee viaggiano sulla carta e sullo schermo. In modi differenti, ovviamente, ma altrettanto importanti.
Reynolds si dichiara sostanzialmente pessimista circa il futuro della musica in un regime di accesso incondizionato e di consumo iper-personalizzato. Distratti da un’offerta in continua espansione, “tendiamo a dimenticare la realtà dei limiti – delle risorse, del tempo individuale, delle capacità del nostro cervello di processare le informazioni oltre una certa velocità.” Reynolds suggerisce che le tecnologie attuali ci trascendono: viviamo in un ambiente tecno-sociale che supera di gran lunga le nostre capacità di assorbimento'. La conclusione del critico britannico è che viviamo in un’epoca marcata da patologie di consumo sfrenato, patologie cancerogene, terminali. Anche in questo caso, l'analogia è significativa: “Metastasi, termine che indica la diffusione della malattia nel corpo, descrive in forma indiretta la malattia caratteristica del pop postmoderno: c’è una connessione profonda tra la logica del ‘meta’ (referenzialità, copia delle copie) e la ‘stasi’ (l’idea che la storia del pop si sia arrestata)”. C’è troppo di tutto, conclude Reynolds. E il troppo non produce nulla di nuovo: siamo imprigionati in un limbo atemporale e persino i critici di professione non sono in grado di distinguere un brano prodotto nel 2008 da uno del 2002. E questo perché non esiste alcuna differenza percepibile tra un brano prodotto nel 2008 e quello prodotto nel 2002. Forse l’unica via d’uscita è il reset, il ripartire da capo. Soprattutto, dobbiamo imparare a dimenticare. Dimenticare - suggerisce il critico - è una strategia esistenziale ed emotiva cruciale per gli esseri umani”. Preso atto che l’atto del dimenticare, al pari del respirare, non è volontario, o per lo meno consapevole, quello che possiamo fare, piuttosto, è ignorare: cancellare automaticamente i feed che si accumulano nel nostro aggregatore, rifiutare di caricare l’ennesimo update, smettere di scaricare l’impossibile, deframmentare il cervello.
O magari, dovremmo imparare a gestire la nostra vita digitale senza invocare la fine della cultura tout court.
Pubblicato in Italia da ISBN Edizioni Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato di Simon Reynolds sarà disponibile nelle librerie a partire dal 15 settembre 2011. A tutti gli interessati consiglio la lettura del blog ufficiale." (Matteo Bittanti, WIRED)
Comments